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Antonio Labriola nelle “Grandi Scuole della Facoltà di Lettere e Filosofia”

Marco Dormino

 

L'11 e il 12 maggio del 1994, alla Facoltà di Lettere e Filosofia si tenne un convegno sulle “Grandi Scuole della Facoltà”, ovvero quegli indirizzi, nell'ambito dei tanti settori scientifici e disciplinari presenti nella Facoltà di Lettere e Filosofia, che per risultati didattici e di ricerca, per orientamenti comuni, hanno avuto una loro continuità, costituendo delle vere e proprie scuole. Queste, scrive il Preside Paratore nella sua introduzione al Convegno, vanno intese come patrimonio del passato che vive e si perpetua nel presente. Una vera e propria base culturale sulla quale si costituisce il futuro, con nuove idee, in un mondo che ne ha veramente bisogno. [1]

Ora, qual è il posto che Antonio Labriola occupa all'interno delle Grandi Scuole della Facoltà? Di certo non sorprende l'assenza di Labriola nella “scuola di geografia” o nella “scuola di cinema”. Come non è un fatto inaspettato trovare Labriola presente, e con quale energia, nella “scuola di pedagogia”. Egli tenne l'insegnamento pedagogico dal 1974 fino al 1902. Fu anzitutto un educatore, celebri sono rimaste le sue lezioni vive e appassionate, il suo impegno per il mondo della scuola e degli insegnanti. Dunque, Labriola «maestro perpetuo», ricorda Nicola Siciliani de Cumis, la cui eredità arriva idealmente fino ai giorni nostri, passando attraverso l'opera di Luigi Credaro, Guido Calogero, Franco Lombardi, fino a Aldo Visalberghi e oltre.

Ciò che, invece, sorprende è costatare l'assenza di Labriola nelle scuole “filosofica” e “storica”. Labriola ebbe la cattedra di filosofia della storia dal 1887 al 1903, mentre tenne quella di morale dal 1874 al 1902, anno in cui passò a teoretica. Quest'ultima cattedra vide poi, negli anni, alternarsi personaggi come Brnardino Varisco, Giovanni Gentile, Pantaleo Carabellese, Ugo Spirito, fino ad Augusto Guerra, Gabriele Giannantoni, Gennaro Sasso, ecc. Dunque, perché quest'assenza? È questo sicuramente un fatto molto indicativo. Porta in primo piano il problema dell'inadeguato riconoscimento dell'apporto che Labriola diede all'Università di Roma, e più in generale alla cultura e alla società italiane. Una lacuna, questa, la cui necessità di essere colmata è ben presente, e molte sono le iniziative che lo dimostrano, in questo anno nel quale cade il centenario della sua morte.

 

 

Labriola e la “scuola di pedagogia” di Roma

 

Giacomo Cives riconosce una “scuola di pedagogia” dell'Università La Sapienza di Roma attorno a tre “maestri”: Labriola, Credaro e Visalberghi. Una scuola caratterizzata da orientamenti e principi comuni pur nelle differenze di formazione e nella distanza storica. La continuità, e dunque la “realtà” della scuola, è da ricercarsi negli aspetti comuni che l'insegnamento di questi tre professori ebbe: la laicità, la democraticità, una forte attenzione verso le esigenze di giustizia e libertà della società. Ma anche nella posizione che la filosofia ha rispetto alla pedagogia, non di superiorità bensì di sostegno. E lo stesso dicasi per la scienza. Inoltre, la “scuola romana” si caratterizza anche per il rapporto diretto con il mondo della scuola, rapporto di partecipazione, anche sperimentale, in cui i problemi educativi e scolastici vengono inquadrati in una prospettiva internazionale. Segno distintivo della tradizione pedagogica di Roma, scrive Cives, è, dunque, l'impegno per una teoria dell'educazione e una sua pratica moderna, in una società che si trasforma e si emancipa dalle vecchie ingiustizie, dai vecchi condizionamenti.

Con Labriola, Credaro e Visalberghi «si evidenzia una linea di progresso sul fronte culturale e sociale, insieme seria e ricca di sostanza». [2]

Labriola ebbe la cattedra di filosofia morale e di pedagogia a La Sapienza nel 1874 (insegnò anche filosofia della storia dal 1887 al 1903), prima di trasferirsi a teoretica nel 1902. Una lunga parentesi in cui, partito dalle posizioni liberali del maestro Silvio Spaventa, abbandonò l'iniziale hegelismo e herbartismo per divenire studioso a livello internazionale del materialismo storico, collaborando alla nascita del partito socialista nel 1890.

Personalità viva e combattiva, in polemica con il positivismo e con i suoi colleghi positivisti, Labriola, come ha affermato Eugenio Garin, detestava scrivere libri e, grande oratore, affidò tutto il suo meglio a lettere, articoli di giornale, conferenze. Scrive Cives che Labriola fu studioso inquieto e inquietante, estraneo agli schematismi tradizionali e coraggiosamente e senza perifrasi anticonformista e impegnato nel rinnovamento della cultura, della filosofia, della pedagogia, dell'istruzione e della società italiana. [3]

Cives prende in considerazione i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia , in cui Labriola riconosce la filosofia della prassi come punto focale del materialismo storico, superamento e dell'idealismo e del materialismo naturalistico, in cui il passaggio fondamentale è quello dalla vita al pensiero e non viceversa. Questa raccolta di saggi, scrive Cives, costituisce il più significativo apporto a cavallo tra i due secoli alla riflessione e non solo italiana sul marxismo, che ben lungi dal rappresentare come riteneva Croce la testimonianza della sua parabola, ascesa e quindi morte, ha contribuito a tener vivo, col caloroso apprezzamento di Gramsci, un discorso serio sul pensiero di Marx ed Engels, veduti non come costruttori di sistemi […] ma come critici storici aperti al futuro e sostenitori nella pratica positiva e nell'indagine di un “metodo di ricerca”. [4]

Labriola, continua Cives «affronta e interpreta il materialismo storico senza scorciatoie e semplificazioni ma sempre con rispetto profondo per i problemi complessi, su cui pur avanza delle ipotesi interpretative, come rapporto filosofia e scienza, carattere della sovrastruttura non quale semplice, meccanico derivato delle condizioni economiche, elevatezza della morale concreta, e non già esortativa e catechistica, nel processo dell'uomo che produce se stesso attraverso il fare e il lavoro sociale quale “resultante dell'esperienza e dell'educazione”». [5]

E la prassi è centrale anche nel problema pedagogico-didattico. Labriola, studioso e interprete di Marx, da sempre fu attento anche alla figura di Socrate [6] , riconoscendo nell'atteggiamento socratico, o “socratismo”, “il nocciolo primo di ogni filosofare”. E come la maieutica di Socrate, l'insegnare è per Labriola non definire, classificare astrattamente, bensì attività che genera altra attività, che risponde al bisogno reale. Il discorso di Labriola, sottolinea Cives, ha un forte senso “tanto antideologistico quanto antipedagogistico”. Richiama, in altre parole, la stretta connessione in Labriola tra riflessione filosofica e riflessione pedagogica.

Labriola, dunque, oltre che filosofo e giornalista, fu anche e soprattutto educatore. Cives richiama le lezioni che Labriola teneva, lezioni accese che ispirarono polemiche ed anche agitazioni studentesche. In esse spiccava  la sua grande cultura, efficacia comunicativa, abilità “maieutica”: su un tema particolare di vario sapere sollecitava gli studenti a farsi in prima persona introduttori al dibattito e, con la sua guida, a intervenire attivamente. [7]

Dunque, il Labriola educatore non può essere separato dal Labriola filosofo. La pedagogia, nella sua ottica, è una scienza filosofica e pratica. Cives critica, così, la parzialità di un approccio solo “politico” o “filosofico” a Labriola: «come è ingiusto leggere Labriola pedagogista solo nelle sue prese di posizione specifiche sull'educazione, fuori dal loro contesto complessivo di pensiero, può essere altrettanto unilaterale non tener conto anche delle sue riflessioni di pedagogia, più significative e corpose di quel che si possa credere». [8]

L'esigenza educativa di Labriola trovò espressione, più che nei saggi di pedagogia veri e propri, i quali non furono molti, in relazioni, articoli o appunti che “testimoniano insieme competenza e penetrazione”. In essi Labriola si batte per una scuola popolare, il quale è un “problema di politica sociale democratica”, e denuncia la piaga dell'analfabetismo, il che testimonia il “legame sempre fortemente prospettato da Labriola tra scuola e società”. Cives ricorda, inoltre, come Labriola fosse a favore dell'accesso delle donne agli studi superiori, della libertà degli studenti e della libertà didattica dei professori, fondata su quella della scienza.

Inoltre, attraverso soggiorni all'estero per incarico ministeriale, Labriola poté studiare gli ordinamenti scolastici di altri paesi, soprattutto tedeschi. In questo ambito elabora anche documenti, studi e progetti scolastici normativi per il Ministero di grande concretezza, che attestano come l'attenzione, la conoscenza, la proposta innovativa circa il sistema d'istruzione siano tutt'altro che marginali o improvvisate nella sua attività. [9]

Nel 1887 Labriola assume la direzione del Museo di istruzione ed educazione di Roma,  ubicato nel Collegio Romano, il che gli fornì il materiale necessario alle sue indagini. Cives afferma che nella guida del Museo l'interesse pedagogico e educativo di Labriola, sempre più accentuato, ha modo di esprimersi con la carica di vitalità ed entusiasmo dello studioso, che così aggiunge ai suoi impegni scientifici e accademici uno studio attento della scuola del mondo, anche nei suoi regolamenti, nei suoi orari, nei suoi bilanci più minuti, con vivo e partecipe spirito collaborativo, ed una presenza assidua tra gli uomini della scuola, particolarmente elementare. [10]

Labriola volle che a sostituirlo sulla cattedra di pedagogia nel 1902, mentre lui passava a teoretica, fosse Credaro. Nel 1900, durante l'inaugurazione dell'anno accademico a Pavia, Credaro aveva pronunciato un discorso sulla libertà della scienza e dell'insegnamento universitario che ricordava molto quello tenuto da Labriola nel 1896 ( L'Università e la libertà della scienza ); questo discorso indusse Labriola a sceglierlo come suo sostituto. Credaro gli subentrò anche nella direzione del Museo di istruzione ed educazione, quando nel 1906 fu ricostituito come Museo pedagogico. Fu questo un elemento di continuità tra i due, a proposito del quale Cives scrive: «la continuità dell'opera di Labriola e Credaro nella direzione e nel potenziamento dei musei dell'educazione, come esigenza di dar concretezza didattica e respiro internazionale allo studio della pedagogia, è anche nel loro assiduo e forte impegno nel campo del perfezionamento e della specializzazione professionale degli insegnanti». [11]

Ma la continuità fu data anche dal loro comune herbartismo, rispetto al quale però entrambi si discostavano dal modello tedesco, intendendolo invece in un modo più personale.

Alla pedagogia di Herbart […], Labriola e Credaro avevano guardato entrambi più che prendendola alla lettera in ogni dettaglio come alla possibilità di una fondazione seria, scientifica del sapere educativo, liberato dal mero praticismo come dal moralismo che nascondeva e tutelava ristretti e egoistici interessi di ceto (tema del pedagogismo ideologico denunciato da Labriola). […] Per queste ragioni, in tale senso si era sviluppato l'herbartismo di Labriola e di Credaro, inteso come elaborazione di una scienza moderna e autonoma, e liberamente arricchito di motivi, istanze cui era particolarmente sensibile, sia nel rifiuto di un didatticismo arido e restrittivo, sia nell'integrazione forte della dimensione sociale e politica con le altre più tipicamente herbartiane della morale e della psicologia, come componente dinamica e dimensione ineludibile dell'educare. E per di più, lo sappiamo, intesa pur con varietà di accento in un senso democratico avanzato, di sviluppo sociale e di progresso civile, da promuovere nel Paese prima ed ancor più nella scuola. [12]

Dopo Credaro la continuità della “scuola pedagogica” si ebbe grazie a Aldo Visalberghi. Credaro tenne la cattedra di pedagogia fino al 1935 (ma lo avevano sostituito, causa impegni ministeriali, dal 1910 al 1914 Varisco e dal 1919 al 1922 Gentile). Vi fu una lunga transizione, durante la quale l'insegnamento di pedagogia fu affidato anche a Guido Calogero (dal 1959 al 1961) e a Franco Lombardi (dal 1961 al 1962): i tre anni del loro insegnamento di pedagogia sono stati una buona premessa per la sua rivalorizzazione, da realizzare pienamente con un suo apprezzato specifico docente di ruolo. [13]

Proprio Calogero e Lombardi vollero Visalberghi alla cattedra di pedagogia. La continuità della “scuola di pedagogia romana”, grazie a Visalberghi e al corpo docente attuale, arriva idealmente fino ai nostri giorni. Il proposito, conclude Cives «è allora di rimaner fedeli al passato, il passato generoso dei Labriola e dei Credaro, ma anche sia pur con fugace presenza dei Calogero e dei Lombardi, ma perciò stesso, per la costante apertura alla realtà conoscitiva, sociale, educativa in trasformazione che l'ha caratterizzato, di una disponibilità forte ad accettarla criticamente e sostenerla nelle sue valenze migliori con partecipazione, quella realtà, nella consapevolezza che le possibilità dell'educazione per la costruzione di un mondo più libero e più giusto non vanno sopravvalutate, ma neppure dimenticate e trascurate. Perché erano e continuano a essere rilevanti». [14]

 

 


[1] Atti del Convegno Le grandi scuole della Facoltà” , Roma, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1996, p. 5.

[2] Ivi, p. 189.

[3] Ivi, p. 192.

[4] Ivi, p. 194.

[5] Ivi, p. 195.

[6] Cfr. il giudizio che Guido Calogero dà, nella voce Socrate dell'Enciclopedia italiana Treccani, del Socrate di Labriola.

[7] Atti del Convegno ,  cit., p. 198.

[8] Ivi, p. 199.

[9] Ivi, p. 202.

[10] Ibidem .

[11] Ivi, p. 205.

[12] Ivi, p. 207.

[13] Ivi, p. 221.

[14] Ivi, p. 231.

 

 

antonio labriola e la sua università

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