Gianni Amelio. Un posto al cinema. a cura di Domenico Scalzo, Torino, Lindau, 2001.
Indice
In occasione della presentazione del libro sono stati inviati ai quotidiani i seguenti brani tratti dal libro:
Avvicinarsi al cinema di Gianni Amelio è un'emozione intensa e coinvolgente. L'abbiamo rivissuta in tanti, nell'agosto del 2000, durante la proiezione dei suoi film nelle piazze dei paesi che hanno visto Gianni ragazzino: San Pietro Magisano, dove è nato, Taverna, dove ha frequentato la scuola media; i piccoli e grandi centri della Presila, che seguono con particolare affetto l'attività del loro concittadino. Questo libro nasce per ricordare questa emozione. È un omaggio a un cineasta importante, a un calabrese cittadino del mondo, che nei suoi film non smette mai di ricordare i suoi luoghi di origine; e non come ovvia e nostalgica illustrazione, ma come profondo e fecondo stimolo creativo, come debito per le sue radici. Nella "sua" Calabria Amelio trova l'essenza di ogni sentimento, anche quando ambienta altrove le proprie storie. Il suo è un legame che non si cancella, che va oltre le distanze geografiche. Ed è per questo che tutti noi ci ritroviamo nelle sue opere, che sono testimonianze autentiche del nostro vissuto, stimolo di riflessione e di memoria. Un libro come un atto d'amore, che è anche un segno di riconoscenza: da parte del Presidente, degli Amministratori e di tutta la struttura della Comunità Montana della Presila Catanzarese. Un libro che non sarebbe nato senza gli apporti preziosi di Domenico Scalzo, di Nicola Siciliani de Cumis e di Franco Mazza, che ha avuto il non piccolo merito di guidare che scrive attraverso il cinema di Gianni Amelio. (Presentazione dell'Assessore alla Cultura della Comunità Montana della Presila Catanzarese, Serafino Lupia)
La carica dei seicento di Domenico Scalzo Finalmente, a distanza di quasi dieci anni, noi, i seicento abitanti di San Pietro Magisano, il paese in cui Gianni Amelio è nato, siamo ritornati alla carica e siamo riusciti a realizzare un nostro antico sogno: pubblicare, grazie alla Comunità Montana della Presila Catanzarese, di cui facciamo parte, il libro che avevamo iniziato a scrivere subito dopo l'uscita di Il ladro di bambini. Una grande soddisfazione. Soprattutto se si tiene conto che giunge come coronamento di un'iniziativa che, nell'estate del 2000, la stessa Comunità ha voluto dedicare ad Amelio: una rassegna cinematografica, una mostra fotografica, ambedue itineranti, e un convegno finale. Obiettivo della manifestazione era quello di diffondere l'opera del regista nei luoghi della sua infanzia (tutti territori sprovvisti, allora come ora, di una sala cinematografica), e, al tempo stesso, di cercare di cogliere le fonti del suo cinema e della sua visione del mondo. Il volume che presentiamo è una raccolta, strutturata essenzialmente in ordine cronologico, di scritti di Amelio (soprattutto interviste e dichiarazioni) e su Amelio (specialmente ad opera di critici cinematografici), tutti già apparsi altrove (tranne una conversazione inedita, Il primo spettacolo). Per motivi di spazio siamo stati costretti ad operare una drastica selezione sul materiale di partenza. Così sono stati sacrificati degli interventi già raccolti in volume, per privilegiare quelli ancora dispersi in pubblicazioni periodiche, italiane e straniere, spesso difficilmente raggiungibili. La nostra intenzione è stata quella di realizzare, più che un'antologia vera e propria, un documentario su Amelio autore. Innanzitutto, abbiamo voluto costruire un "luogo contenente documenti", con il proposito di creare uno strumento di lavoro rigoroso ed insieme accattivante. Da quest'ultima esigenza è scaturita la scelta di utilizzare liberamente i materiali, spesso eterogenei, senza appesantimenti o esplicazioni di natura filologica. Tutti i vari frammenti di discorsi (o se si vuole di riflessioni) qui raccolti restituiscono, un'immagine multiforme, ma anche organica e in divenire (un'immagine in movimento), un'immagine che rimanda ad altre immagini: come nei film d'Amelio, in cui spesso, così come ha più volte dichiarato l'autore, in un suo film c'è un altro film. Volendo indicare solo alcune strade percorribili, per attraversare il territorio delle opere di Amelio (e di riflesso le pagine di questo volume), si possono proporre (come lo stesso regista ha suggerito negli anni dei suoi esordi) alcuni nuclei forti, presenti nella sua attività: l'adolescenza (e il suo opposto, l'adultità), il cinema (e il suo referente dialettico, la vita), la storia (e il suo dover essere, l'utopia). Un cinema, quello di Amelio, che è, come qualcuno ha ricordato, "molto psicoanalitico", e nello stesso tempo fortemente pedagogico e didattico. Un cinema in cui etica ed estetica s'incontrano e si compenetrano inscindibilmente. Un cinema che è continuamente sospeso tra cronaca, autobiografia e storia. Un cinema che, qualunque sia il pretesto narrativo intorno a cui l'opera si struttura, sa recuperare un rapporto vivo e fecondo con la realtà, e con la problematicità dell'oggi, di cui sa offrire una rigorosa, e nello stesso tempo "emozionante", interpretazione. (Introduzione del curatore)
Il primo spettacolo. Conversazione con Gianni Amelio a cura di Domenico Scalzo Gli anni del liceo a Catanzaro: qual è stato il clima, diciamo così, della tua formazione culturale? A quel tempo leggevo molto poco, non ero abituato alla lettura, nessuno mi spingeva alla lettura. Di libri se ne vedevano si e no una diecina a casa mia ed erano i libri di scuola. Tra l'altro, io ho fatto il liceo classico senza possedere un vocabolario di greco. Perché il vocabolario di greco costava troppo. Quando ne avevo bisogno per i compiti in classe, me lo prestava un compagno di un'altra sezione. Stessa cosa per il latino. Il libro era comunque un oggetto voluttuario. Io non avrei potuto mai portare in casa libri o riviste di cinema. Una rivista costava cento, centocinquanta lire, e con cento lire si comprava il pane... Questo non per fare della retorica, ma per spiegare come mai non posso dire di aver letto ¡echov a undici anni, Proust a dodici, o Stendhal alle elementari... Io ho fatto male anche la scuola. Al liceo ho incontrato una sola persona o forse due, c'era anche il caro professore Procopio... che mi hanno davvero insegnato qualcosa... Quindi mentirei se dicessi "io mi sono formato su...". Ricordo che amavo le grandi storie, Resurrezione è stato il primo grande romanzo che ho letto. Poi Delitto e castigo... Ma, se c'era un film di Visconti intitolato Le notti bianche, correvo a leggermi Le notti bianche di Dostojevskj... Una delle cose che più mi rimasero impresse del professor Mastroianni fu quando disse: "Guardate che la vera cultura è sempre cultura d'occasione. Non leggete mai un libro per caso. Leggetelo se c'è una ragione, magari legata a qualcos'altro...". Avevi cominciato molto presto ad andare al cinema? Il cinema è stato il medicamento a quello che dicevo prima. Prima di tutto come spettatore. Nel senso che sono stato, fin da ragazzino, uno spettatore frenetico, onnivoro, "malato"... Cioè, stavo male fisicamente, se non potevo andare al cinema. Mi ricordo di aver alzato le mani una sola volta contro qualcuno. Una sola volta, contro un mio compagno di seconda media. Abitava a un passo dal Politeama ed era figlio di un poliziotto. Io gli avevo passato il compito di latino con la promessa che lui quel pomeriggio mi prestava la tessera del padre per entrare gratis, dato che il padre a quell'ora dormiva e lui gliela poteva sfilare dal portafoglio, come tante altre volte... Busso a casa sua e lui mi fa :"Mio padre non s'è levato la giacca ed è piegato sul letto dalla parte del portafoglio. Non posso prendere la tessera, ci dorme sopra...". Un altro, avrebbe detto va bene, me la darai un'altra volta. Io invece sono diventato una furia, l'ho spinto al muro, l'ho sbattevo al muro urlando: "Se non mi puoi dare la tessera, mi dai i soldi!" E lui ha avuto una tale paura che è andato dentro, ha preso centocinquanta lire dalla madre, è tornato, me le ha date ed è rientrato di corsa. Così sono andato al Politeama e ho visto un western che si chiamava La vergine della valle, in cinemascope. Per me quella era la vita, quello era un modo di comportarsi giusto. Ho fatto altre cose vergognose, tipo la cresta alla spesa. Volevo andare sempre io a comprare le cose per trattenermi la mia parte per il cinema, rosicchiando sempre qualche lira in più. Il cinema era l'armonia che non riuscivo a trovare fuori. L'armonia stava dentro al Politeama. (Intervista inedita registrata il 30 gennaio 1999)
Se volete voi… di Gianni Amelio "La cosa che cancellerei da questa città è la rassegnazione, il vittimismo, la sensazione di dover comunque subire sempre. Cancellerei nella gente la paura di reagire". Queste parole chiudono i miei appunti filmati su Reggio Calabria e ne riassumono, spero, il significato. Le ho messe alla fine come un'epigrafe e un augurio, insieme ad altre parole che mi sembra colgano nel profondo lo spirito di una lunga e spesso drammatica emarginazione. "Cancellerei una frase: Se volete voi…, che è il simbolo di una coscienza illegale. Quando ci si avvicina ad una qualsiasi persona per chiedergli una cosa che si sa che non si può ottenere, la si accompagna con la frase Se volete voi…". Sono parole dette da chi vive a Reggio Calabria e conosce bene la città e i suoi abitanti. Da chi sa che per migliorare le cose bisogna innanzitutto capire i propri errori e, appunto "cancellarli", ma non con la bacchetta magica. "Le cose stanno cambiando, perché stiamo cambiando noi", dice un ragazzo di diciassette anni. E io gli credo non sulla parola ma per esperienza diretta. Perché anch'io questa sensazione l'ho avuta, e non superficialmente. Con questo ragazzo, nell'estate del 1991, a Reggio Calabria ho girato un film, e anche lui, che a quel tempo era un bambino, ricorda che cos'era allora la città, il senso di smarrimento che ci prendeva la sera, quando ci chiudevamo in una specie di auto-coprifuoco. Oggi la realtà di Reggio Calabria è un'altra, è vero che "sembra passato un secolo" da quel buio. Mi ha fatto piacere, nel corso di ogni mio incontro con le persone che andavo ad ascoltare, avere la conferma di questo sentimento nuovo. E ho potuto conservare, credo, la giusta distanza. Non volevo sovrappormi ai pensieri di chi a Reggio Calabria è nato o di chi a Reggio Calabria vive, per necessità o per scelta. Mi sembrava giusto lasciare la parola ai protagonisti, e diventare io, non tanto il regista, ma il primo degli spettatori. È per questo che ho voluto dare agli appunti su Reggio Calabria non la perentorietà del documentario ma la semplicità della confessione, immaginando che lo "schermo sull'acqua" costruito per il Festival del Cinema "XXI Secolo", diventi una sorta di specchio sul quale la città si riflette e si rappresenta. L'indomani, quando lo schermo non ci sarà più, la "vita di tutti i giorni" riprenderà forse meno ordinata e serena, i problemi avranno il sopravvento e tutto apparirà più difficile. Ma i miracoli, se li vogliamo, tocca farceli da soli. Con la fiducia che, nonostante tutto, si avverano anche i sogni. (Uno schermo per Reggio Calabria, 2000)
Quale Calabria? intervista ad Amelio, a cura di Tonino Sicoli Quale Calabria, Amelio? Quella che è dentro di me: così come c'è la mia infanzia e come c'è tutta l'esperienza mia personale. A questo punto o si tratta di avere un atteggiamento sciocco nei confronti del proprio lavoro e di se stessi, raccontando per tutta la vita la propria infanzia, oppure si decide di metterla in discussione, di crescere, di andare avanti. Tanto è vero che quando ho fatto dei film ambientati in Calabria ho cercato di levare qualunque elemento di folklore, tutto ciò che potesse essere esteriore, ornamentale, occasionale e banale. Io racconto delle cose, me stesso, gli altri, ed essendo io a farlo, racconto anche la Calabria. Niente calabresità, dunque? Il fatto è che siamo stati talmente dimenticati dagli altri (e da noi stessi) che sarebbe ora di riproporci, ma senza tagliare i ponti con il mondo. Nell'opera di un regista veneto, ad esempio, non si va a cercare quanto Veneto c'è dentro, è piuttosto questione di complessi di inferiorità se ci troviamo a riflettere su di noi in maniera un po' eccessiva. Da questa regione però molti non hanno scelto di andarsene ma vi sono stati costretti dalla necessità. Non voglio certo confondere la mia decisione a vent'anni di stabilirmi a Roma con quell'emigrazione che dolorosamente ha segnato la società meridionale. Io in fondo ne traggo anche delle emozioni delle gratificazioni, rivisitando la Calabria con la fantasia. Mio padre invece, che negli anni Quaranta è dovuto emigrare nel Sud America, ha vissuto questa esperienza in maniera paurosamente allucinante. Ma anche tu in un certo senso sei stato "costretto" ad andartene. Voglio dire: avresti potuto fare il regista rimanendo in Calabria? Il mio è un mestiere utilissimo ma anche inutile da altri punti di vista. Non pongo cioè il mio spostamento per poter fare del cinema come un problema socialmente importante. I motivi sono piuttosto di ordine tecnico. Se Roma è il centro del cinema, se si vuole fare questo... importante invece vedere quali sono le difficoltà di un ragazzo calabrese nel trovare lavoro, nello studiare, nell'inserirsi nelle strutture di altre regioni. Insomma vedo il problema su altri contesti che non quello dello spettacolo. In definitiva, Amelio, che significa per te fare cultura attraverso il cinema? Il concetto di cultura è un concetto molto ampio; fare cultura implica l'agire come uomini. Significa anche produrre una reale trasformazione della realtà? Ecco, sì, questo tipo di trasformazione non la voglio delegare. Si interviene e partecipa con le cose che si fanno, per come le si fa, e anche non dimenticando di spaziare in altri campi, cioè di essere uomo fra gli uomini, in una sola parola socializzando. (da "Paese Sera", 21 agosto 1980)
Le ragioni del cuore ma senza nostalgia intervista ad Amelio a cura di Pietro Pisarra Qual è la Calabria che ami? Io sono nato e vissuto in Calabria per vent'anni. Mi sono formato lì, le mie radici sono lì, però mi è difficile rispondere. Mi sembra che sia necessario (e non solamente perché non vivo più in Calabria) abbattere le frontiere, superare ogni forma di regionalismo. La cosa che mi è rimasta "dentro", della Calabria, è la mia famiglia, la storia, i problemi della mia famiglia. Io sono nato in provincia di Catanzaro, dopo la guerra, in un momento in cui la situazione sociale era molto più pesante di quella di oggi. E ho vissuto sulla mia pelle vicende e vicissitudini che, a raccontarle, sembrano proprio un romanzo tipico del Sud. Anzitutto, l'emigrazione. Io vengo da una famiglia di emigrati a catena. Sono emigrati in Sud America il mio bisnonno, mio nonno, mio padre e i miei zii. E tutta la mia famiglia è una storia di donne forti e di uomini invisibili, che si sono persi negli oceani, al di là degli oceani, e che non abbiamo mai conosciuto. Io, mio padre, l'ho conosciuto quando avevo già diciotto anni. Mio padre non ha mai conosciuto suo padre. Della Calabria mi è rimasto il peso della miseria (ed anche della forza), il peso della sopravvivenza, della lotta. Io vengo da una famiglia di contadini o di gente che non aveva un mestiere, di gente aggrappata solamente alla terra e alle chimere americane, quindi non conosco la Calabria della borghesia, che, anzi, quando ero in Calabria, detestavo. La Calabria che amo è quella della terra, dei calabresi veri, che si esprime nei valori di una cultura antica. La mia esperienza in Calabria è stata di assoluta e totale lotta per la sopravvivenza. E quando sono andato via per lavorare, sono emigrato anch'io, in fondo. Non c'è in te come si dice oggi, nessuna "nostalgia delle radici"? No. Non so cosa sia la nostalgia. Penso che ognuno di noi debba vivere proiettandosi nel futuro. In fondo, se c'è un difetto in molti calabresi, questo è un certo adagiarsi su situazioni nostalgiche di comodo, che derivano da un atteggiamento molto preciso: il fatto di vivere, talvolta, autocommiserandosi. È il vittimismo di cui bisogna liberarsi, una volta per tutte. Io non so quanto le cose siano cambiate in Calabria. Però la situazione che mi porto dietro mi stringe ancora il cuore, solo a pensarci. Tant'è vero che, dopo le primissime esperienze, dopo i primi due film che sono stati in qualche modo legati alla Calabria, ho sempre raccontato delle storie sulla borghesia. Mi sono sempre proiettato su un altro mondo, anche perché sento una specie di disagio sentimentale a rioccuparmi di certe cose. (da "cittàcalabria", agosto 1983) |