Giocare per forza. Critica della società del divertimento. Mondadori, Milano 20012.

 

«[…] un interrogarsi senza fine – un piacere che tutti conosciamo perché tutti siamo stati bambini e abbiamo fatto domande, ripetutamente, finché non ci hanno fatto star zitti» (p. 3): questa è la vera filosofia e al tempo steso il vero gioco; ci muoviamo volontariamente in ambiti che non ci sono familiari, affrontiamo l’ignoto per capire e capirci di più anche se questo significa accettare frustrazione e imbarazzo perché ciò che alla fine ne otteniamo è l’acquisizione di nuove capacità.  Gioco e filosofia richiedono attenzione, sforzo e dettagli, tutto quello che insomma manca a molti “giochi” proposti dalla moderna società che invece trasformano il gioco da prodigioso mezzo di evoluzione nella più diabolica e inebetente antitesi di sé stesso.

  Così a Las Vegas dove la ripetizione delle slot non insegna nulla a nessuno in un falso gioco che riproduce la ripetitività che le sue vittime sperimentano al lavoro fornendo quel minimo di inaspettato garantito: in realtà rinnovando il sentimento di «sentirsi incapaci di dirigere il nostro destino» (p. 34). Il giochicidio si consuma quotidianamente in molti programmi televisivi, specchio per le allodole che attira l’attenzione dello spettatore per “far passare” l’esatto contrario del gioco: la ripetitività ossessiva della pubblicità, il tutto ottenuto grazie alla creazione di una cornice falsamente e posticciamente ludica.

Ma la morte del gioco si verifica anche nel nostro rapporto con gli oggetti: solo alcuni di essi vengono proposti come adeguati, come “quelli giusti”, realmente adatti allo scopo. In tal modo viene indotto in noi il desiderio di impossessarci di loro, eliminando lo sforzo di creatività che serve per adattare gli oggetti ai nostri scopi. Ma rendere le cose semplici impedisce di crescere, inventare e inventarsi (p.74). L’essenza del vero gioco naufraga in un allenamento alla violenza e all’aggressività come nel caso dei genitori americani che a tale scopo strumentalizzano il football; così il gioco non è più occasione di divertimento e liberazione.

Chi viene sottoposto a questo tipo di condizionamenti è pronto per apprezzare la “fedeltà” delle riproduzioni della World Showcase di Epcot, Orlando: il parco dei divertimenti in cui puoi viaggiare in tutto il mondo rimanendo fermo, sia fisicamente sia psicologicamente e intellettualmente. Infatti si incontra ciò che già si conosce, perché le aspettative negative e i fattori di rischio che ogni viaggio porta con sé sono ridotti a zero: tutto è dominio e controllo, e quindi niente confronto con alcun tipo di problema, nessuna possibilità di saggiare i nostri limiti, anche attraverso sbagli e frustrazioni, in modo che ciò che stiamo tentando di ottenere ci cambi dal di dentro. 

Tuttavia questo rifiuto della complessità e complicazione alla fine immiserisce e fa regredire le capacità critiche: senza il vero gioco niente ristrutturazione del nostro io, niente consapevolezza dei nostri limiti, niente sperimentazione delle nostre risorse: insomma, niente crescita. Altro presupposto del vero gioco è lo spazio libero, proprio quello che viene assorbito dai moderni giochi elettronici, anche questi con tutte le caratteristiche dell’anti-gioco, minimo sforzo richiesto e in cambio superamento dei propri limiti a buon mercato. E’ giochicidio anche pensare ingenuamente di servirsi della rete quando invece si diventa solamente sue rotelle, al servizio di scopi che non sono i nostri, convinti che chi ci fa risparmiare fatica ci stia facendo un favore.

Come nella storia dell’uomo che odiava lo spazio e che mirava a eliminarlo divenendo in tal modo incapace del minimo movimento e cambiamento, il gioco si suicida nella tendenza dei giochi locali ad armonizzarsi «in un unico gioco globale, che ha in Internet la sua metafora e il suo più valido strumento» (pp. 204-205), nel suo farsi sempre più astratto e concettuale (p.206); nel suo scivolare verso «la palude del centro» (p.208), un “giusto” mezzo di indifferenziazione che funziona in quanto vi aderisce la massa, amante (e resa dall’anti-gioco amante) dell’assenza di rischio, co-assassina del gioco.

 

DIALOGO CON L’AUTORE

 

Accanto all’omicidio del gioco lei mette in guardia dal fatto che la pratica filosofica corra anch’essa il rischio di un omicidio/suicidio: isterilimento e perdita della sua funzione con l’aggravante di «una tendenza (auto)distruttiva, un ostinato impulso a trascinare tutti, filistei e non, con sé verso l’abisso» (p. 4). Più avanti, un’analoga pulsione distruttiva è rilevata nella cosiddetta “posizione riduzionista” (p. 105), sottintesa nel ragionamento commerciale attuato per la progettazione delle “fedeli” riproduzioni di Epcot. Afferma ancora che «forse è doveroso non stare affatto al gioco del riduzionismo ma darsi invece da fare per smascherarlo per rilevare il progetto politico nascosto dalle sue apparenti affermazioni di principio» (pp. 105-106). Considerando l’attuale degenerazione del processo di ricerca filosofica «chiuso in una dimensione specialistica, protetto con spietate barriere gergali» (p.4), quale potrebbe essere il “progetto politico” che si cela sotto questa tendenza?

 Nel mio nuovo libro Parole che contano (Mondadori 2004) faccio notare che la semantica è un terreno di azione politica: che per tutte le parole, e in particolare per le parole più importanti della nostra forma di vita, si combatte costantemente una lotta feroce. Interessi e progetti diversi fanno di tutto per appropriarsi del loro significato e quindi per guidarci attraverso questa scelta ad azioni conformi ai loro interessi e progetti. Prendiamo dunque le parole “gioco” e “filosofia”. Chiaramente, esse sono associate a immagini positive: di gioia, di attività fini a sé stesse, di arricchimento personale, di allargamento delle nostre conoscenze e abilità. Chiaramente, giovani e meno giovani (tutti coloro che sono giovani di spirito) sono attratti da queste parole e da ciò che significano. Reprimerne semplicemente l’uso alla lunga non funzionerebbe: le parole e quel che significano continuerebbero a circolare in modo nascosto e sovversivo. Meglio allora, per chi teme che la sua attuale posizione di potere possa essere minacciata dalle nostre pulsioni ludiche, critiche e creative, offrirci un nuovo significato per le parole stesse, e così anche illuderci di giocare e di fare filosofia mentre in realtà facciamo l’opposto. Il “gioco” ridotto a tetro e ripetitivo rituale e la filosofia ridotta a disciplina specialistica e gergale fanno parte di questa operazione repressiva. E ovviamente, siccome chi è giovane di spirito non può riconoscersi in tali forzature e violenze, ne nascono frustrazione, depressione, sconforto e cinismo. Il che, ancora una volta, fa l’interesse del potere costituito. Niente indebolisce di più la naturale tendenza a diventare protagonisti della propria storia della sensazione che sia impossibile farlo o non ne valga la pena: che tutto sia stato già detto e scritto e per noi non rimanga più spazio.

Nel suo libro Lei usa con diversi significati il termine “bambino”: dalla “confessione” nell’introduzione sul ruolo dei bambini in qualità di co-autori del libro, al bambino come vero giocatore, agli “eterni bambini” dei programmi televisivi,  gli “amici da casa”, passivi spettatori non solo della tv spazzatura, ma anche del loro progressivo e inconsapevole abbrutimento e asservimento psicologico perché possano essere telecomandati tramite la pubblicità. L’analisi non arriva però al solito invito a spegnere il televisore, ma Lei suggerisce, in un certo senso, di “prendere sul serio” questi spettacoli (proprio perché tutto sembra scoraggiare questa reazione e far credere che non ne valga la pena) e smascherarne i meccanismi nascosti e gli scopi ultimi. Oggi ci sono, a suo parere, sufficienti spazi in cui si inizi la riflessione e si apra il dialogo su ciò che viene proposto dai media, in primo luogo televisione, e sui fini ultimi, economici e politici, di un certo modo di fare spettacolo?  

La televisione, come ogni nuovo strumento di informazione, ha rivelato all’inizio grandi potenzialità espressive e liberatorie. Lo stesso si può dire del cinema degli albori, e adesso di Internet. Il vero problema non è la televisione ma l’uso politico che ne viene fatto oggi: è l’appropriazione di ogni spazio televisivo da parte dei meccanismi di potere allo scopo di inscenarvi la ripetizione ossessiva dei propri messaggi e la pratica dell’istupidimento collettivo. La televisione è anche nostra e dovremmo riprendercela: politica è partecipazione, si diceva (giustamente) una volta, dunque anche partecipazione all’esercizio quotidiano dell’informazione, della trasmissione di cultura e di spettacolo. La “televisione di quartiere” lanciata recentemente da alcuni amici di Bologna è un buon passo in questa direzione. Occorre non limitarsi a rifiutare la televisione ma viverla in modo critico e cercare alternative concrete al modo in cui viene attualmente gestita.

A p. 48 Lei fa notare come l’uomo moderno della parte più ricca del mondo a differenza dei suoi antenati anche più prossimi abbia non solo il tempo ma anche le “forze” per giocare, «visto che troppi ormai sono impegnati in lavori sedentari e costretti a smaltire ad ogni costo le calorie in eccesso». Le calorie in eccesso, quindi, sono viste sotto la rivoluzionaria luce del gioco che vi riconosce delle “forze”, delle energie a disposizione. Dalla pubblicità siamo invece abituati a considerarle come un “di più” sgradevole e vergognoso da smaltire quanto prima (e tale dimagrimento è presentato come obiettivo in sé stesso e porta d’accesso obbligata se vogliamo essere accettati dal nostro contesto). Questo a vantaggio dell’apparato economico che si prefigge (e ci prefigge) questo obiettivo facendoci perdere non solo tempo e soldi, ma anche, spesso in modo del tutto sterile, quelle energie che servirebbero al raggiungimento di nuovi orizzonti di crescita. Può vedersi anche in questo una forma di ulteriore attentato al gioco?

Nell’immediato dopoguerra, quando non si sapeva come occupare la gente, c’era chi faceva loro scavare buche per terra che altri potessero colmare. La farsa dei problemi di peso nella società contemporanea mi ricorda quella situazione: prima si convincono i consumatori a mangiare il più possibile panini, merendine e pasticci vari, e poi li si convince a sottoporsi a diete logoranti e costose. Ciascuno di noi dovrebbe uscire da questo circolo vizioso: interrogarsi su che cosa davvero vuole dalla vita e lavorare a un suo proprio progetto, invece di farsi scrivere la biografia da altri. E scegliere la propria vita significa soprattutto scegliere attività che danno piacere e soddisfazione in quanto tali, non perché qualcuno ce le ha imposte. Significa dunque giocare, secondo la definizione che del gioco ho dato in Parole che contano.

Nel caso delle sue lezioni di filosofia il gioco non è solo il contenuto, l’elemento di merito - «la filosofia per me è gioco» (p. 9) -, ma anche il metodo, in quanto attraverso l’approccio ludico è possibile ottenere non solo il divertimento, ma soprattutto (forse soprattutto grazie ad esso) la reale messa a disposizione del sapere: giocando si impara e giocando si insegna veramente. Ma allora dietro un diverso modo di fare lezione, antitetico rispetto a quello da Lei descritto, c’è semplicemente l’inconsapevole ripetizione dello schema d'insegnamento che a propria volta si è subito (forse senza metterlo mai in discussione), o può esserci anche sotto una simile impostazione delle lezioni un “progetto politico” (con cui si sta collaborando anche a propria insaputa)?

Suggerivo già prima che l’educazione è tanto oggetto di scontro politico, per lo più non dichiarato, quanto ogni altro aspetto importante della nostra vita. Così come è importante, per chi vuole mantenere le bocce ferme, che molti si illudano di giocare senza giocare davvero e molti si illudano di fare filosofia senza farla, è anche importante che molti si illudano di ricevere (o dare) un’educazione facendo in realtà tutt’altro. Ecco allora l’“educazione” ridotta a indottrinamento passivo, alla riproduzione di contenuti dati dall’alto; ecco imporsi un meccanismo di attenzione all’insegnante del tutto analogo a quello dei soldati a un’adunata. Ed ecco i risultati di questo processo distruttivo: persone che, nella migliore delle ipotesi, sono “colte” perché sanno snocciolare date e citazioni ma non sanno come farne uso per migliorare la propria vita, o per trarne autentica passione e diletto. È ancora una volta in Parole che contano che spiego che l’educazione deve invece essere reciproca, attiva da entrambe le parti, permanente e aperta a chiunque ne voglia usufruire in qualsiasi misura e con qualsiasi livello di intensità.

 

 

Dalla quarta di copertina

«Da Disneyland alla Ruota della fortuna, dai videogame ai giochi di società, la parola d’ordine del mondo contemporaneo sembra essere diventata una sola: divertitevi!». Ma di che gioco si tratta? Per rispondere a questa domanda Ermanno Bencivenga si è aggirato tra i fantasmagorici casinò di Las Vegas, scoprendo che nei week end gli americani compiono, davanti a tavoli verdi e slot machine, gli stessi disperati gesti automatici che ripetono durante la settimana lavorativa; ha seguito quotidianamente i quiz televisivi di Mike Bongiorno, Gerry Scotti e Iva Zanicchi, notando che si tratta di spettacoli in cui viene “recitato il più ineccepibile dei rosari”: il martellamento pubblicitario. Nella nostra civiltà, insomma, il gioca alla fin fine rivela la sua vera natura di colossale affare economico. Giocare per forza ci apre gli occhi su un possibile, tragicomico futuro, in cui il divertimento ucciderà la creatività, esaltando la ripetizione e mortificando l’intelligenza. E ci aiuta a riscoprire il più favoloso (e il meno costoso) dei giochi: la fantasia.

 

Ermanno  Bencivenga (Reggio Calabria, 1950), docente di filosofia all’Università di California (Irvine), è autore di numerosi saggi di logica, estetica, filosofia del linguaggio e storia della filosofia. Ha pubblicato, fra l’altro, Una logica dei termini singolari (Bollati-Boringhieri, 1980), Il primo libro di logica (Bollati-Boringhieri, 1984), Tre dialoghi (Bollati-Boringhieri, 1988), La filosofia in trentadue favole, Mondadori, 1991), Oltre la tolleranza (Feltrinelli, 1992), Filosofia: istruzioni per l’uso (Mondadori, 1995), Platone, amico mio (Mondadori, 1997), I delitti della logica ( Mondadori, 1998), Manifesto per un mondo senza lavoro (Feltrinelli, 1999), Filosofia: nuove istruzioni per l’uso (Mondadori, 2000), Panni sporchi (Garzanti, 2000).

 

Segue l’indice del volume:

 

Indice

     VII     Prefazione

3                      Introduzione

19                  I         Il gioco non si nega a nessuno

37                  II        Bambini per sempre

57                  III      Un incastro perfetto

75         IV      Lotta senza quartiere

93         V        Il mondo ai tuoi piedi

111       VI      La teoria

131              VII     La fine della fantasia

149       VIII   La rete

187       IX      Lo spazio inutile

189       Postfazione