Corso
di Laurea in Filosofia
correlatore: Prof. Paolo
Vinci
candidato: Aldo Demartis
matr. 10121142
Anno accademico 1999-2000
Individuo e collettività sono due facce di un identico
problema. Come la terra gira intorno al sole e intorno a se stessa, così sento
che io mi muovo intorno a me e, nello stesso momento, intorno alla
collettività.
Cesare Zavattini, I misteri di Roma
foto di Richard Avedon con rielaborazione grafica
del dipinto di Cesare Zavattini, Autoritratto del sole, 1975
tecnica mista su cartoncino, 54x47.
INDICE
Prefazione V
Introduzione 1
I
Se stesso e
gli altri 13
Se stesso come un altro 15
Parliamo tanto di me 20
II
Oltre agli
altri c’è dell’altro: fili d’erba 29
Siccome tutto mi porta al
dettaglio, non posso
che considerare il dettaglio
come l’insieme 31
INDICE
III
Fotografia 37
Un paese 39
«Piccola storia “di una”
fotografia» 45
Un paese vent’anni dopo 55
Fiume Po 61
Dentro le case 64
Dentro il lavoro 68
Foto d’archivio tra ‘800 e
900 72
Ritratto fotografico 75
Fotografia, tempo e bambini 81
Vecchi e giovani 90
IV
Zavattini
fotografo 93
Cesare con le parole 95
Arturo con la macchina
fotografica 97
Concorsi fotografici 100
INDICE
Io,
un altro, a casa Zavattini 105
V
Passato
presente e futuro in Proust, Zavattini e
Heidegger 111
Copertina-Premessa 113
Passato 115
Presente 131
«Futuro» 140
VI
Il Grande
autoritratto 147
Se Stesso 149
Le mani: gli altri 169
Fotografi e mani 181
Le mani del “nostro regno” 184
Ma anche mani malvage, mani
che ossessionano 191
Uovo, ovale 193
INDICE
VII
Dettagli.
Realtà e magia 197
Immagini “accendistorie” 199
Realtà 206
Pensiero mitico 215
Magia 222
Conclusioni 231
Autobiografia 233
Zavattini oltre Zavattini 236
I bambini ci guardano 245
Bibliografia 251
Indice dei
nomi 261
Indice delle
tematiche ricorrenti 265
Prefazione
Negli ultimi anni sono stati
pubblicati molti buoni libri sulla Didattica della comunicazione visiva[1], nel tentativo di ridurre
lo scarto tra le forme di comunicazione scolastica e quelle presenti al di
fuori della scuola. Il bisogno di saper
leggere e scrivere con le immagini è quanto mai importante per
decodificare la struttura delle varie forme di linguaggio visivo: fotografia, cinema, fumetto, televisione, pubblicità, pittura e opere d’arte.
Per cercare di non ripetere
quanto, in modo certamente più significativo e approfondito, è stato già detto
da studiosi di semiologia dell’immagine[2],
si tratterà di muoversi in questo universo cercando di «vivere nell’iconosfera»[3]
in modo diverso, tenendo presente che con l’immagine si vuole rappresentare non
una copia ma una interpretazione della realtà:
V’è effettivamente un rapporto tra la realtà e l’immagine della realtà, ma, in seno all’immagine, si tratta della stessa realtà e di una realtà diversa; sono i procedimenti che conducono da questo stesso a questo diverso che occorre chiarire. L’immagine non costituisce un mondo parallelo, ma un mondo secondo avente le sue caratteristiche proprie e le sue leggi specifiche. L’immagine è sempre alterazione, volontaria o involontaria della realtà[4].
La presente ricerca
privilegerà, rispetto ai i linguaggi visivi menzionati, la fotografia. L’immagine fotografica è stata considerata, fin dalle sue origini, il mezzo
che più di ogni altro è riuscito a documentare la «realtà», riuscendo a memorizzare su un supporto sensibile un «qui» e un «ora»
irripetibili ma nello stesso tempo riproducibili all’infinito.
Naturalmente la pretesa di
verità di questo mezzo, è stata sempre messa in discussione sia dalla
possibilità di “manipolare” la realtà che dalla subalternità nei
confronti di didascalie che riescono a travisare completamente le intenzioni del fotografo.
Nel presente lavoro,
l’approccio con la fotografia è avvenuto tirando in ballo un
autore che di immagini se ne intendeva (eccome!) e il
cui ruolo di “grande comunicatore” nessuno osa mettere in discussione. Si sta
parlando del magmatico e poliedrico Zavattini, dotato di una complessità tale
da sfociare nell’elementare, nel semplice. Questo autore, nella sua sterminata produzione, si è servito di tutti
i mezzi della comunicazione visiva: fotografia, pittura, cinema, cinegiornali, televisione, fumetti.
A partire agli anni ’50
sente di dover fare i conti con la profonda insoddisfazione che la sola
comunicazione verbale provoca in lui, tanto da
far nascere l’esigenza, allo Zavattini nato giornalista e poi scrittore, di associare a
questa forma d’espressione immagini, siano esse statiche o in movimento.
Da Zavattini si può
apprendere, da un punto di vista molto
poco «scientifico», dalla sua educazione-diseducazione, pedagogia-antipedagogia, il metodo per comunicare
con gli altri, perché questo personaggio,
ha fatto della conoscenza di sé e degli la propria dottrina:
senza esagerare, l’obiettivo primario della sua vita.
Nel duplice rimando da se
stesso agli altri e dagli altri a se stesso instaura, utilizzando ogni mezzo di
comunicazione, il tentativo di conoscere di più chi gli sta accanto nella
quotidianità, nell’ordinarietà, nelle
abitudini, nella ripetitività della vita.
Quando
si ha a che fare con Zavattini, data l’enorme quantità di materiale prodotto,
si prova la stessa sensazione che Zavattini stesso prova: quella, di aver fatto
molto meno di quello che si doveva. A Gambetti[5]
confessa quell’«insoddisfazione di natura generale, dalla quale ricavo anche,
qualche vantaggio, una certa inquietudine perenne per cui qualche volta
sono spinto in avanti invece che essere spinto all’indietro».
Zavattini
lamenta quella cosa «misteriosa e indecifrabile, che è la pigrizia»[6].
Al confronto di questo “pigro”, che non sentiva neanche la necessità di
togliere il suo numero dall’elenco telefonico, rispondendo sempre ad ogni
squillo di casa Zavattini, ci si sente veramente dei “pelandroni”.
Ovviamente i numeri di Visconti, De Sica, Rossellini, non circolavano. Erano privatissimi, figuriamoci darli in pasto all’uomo della strada (quell’uomo della strada che era il sofferto nuovo eroe dei loro film...). Volevi il telefono di Zavattini? Il mio numero? Cercalo alla Zeta: Zavattini Cesare, via Sant’Angela Merici, 40. Tel.: 585480. (Mannaggia, sull’elenco, dopo tanti sussulti, timidezze e sudori per chiederglielo!)[7].
Si
tratta di un uomo che non ha paura dell’altro, ma che al contrario «se ne
occupa profondamente[8]»
e ha «la capacità di godere come poche persone di piccole cose[9]».
Per
arginare lo straripante materiale di immagini afferente ai diversi codici di
comunicazione visiva in cui Zavattini si trova
sempre più coinvolto nel corso della sua produzione intellettuale, si è cercato
di contenere Zavattini dapprima entro i limiti della fotografia, per poi inevitabilmente straripare nella multimedialità, nella multiformità dei suoi prodotti che sembrano
orbitare come pianeti attorno all’ Autoritratto del sole del 1975.
Scrive Zavattini a proposito
della macchina fotografica e delle immagini fotografiche:
Perché
la macchina fotografica è uno strumento da prima comunione, da commemorazione nel suo più
popolare esercizio. Nessuno ha mai pensato di introdurlo nelle scuole per
rendere meno enorme lo iato tra studi e vita; nessuno ha mai pensato di dare un
tema da svolgere con la macchina fotografica. Sarebbero obbligati gli
insegnanti, anche per una ragione tecnica, a un insegnamento più calzante con
la realtà [...]. Ti ricordi l’eterno tema: “Una
passeggiata scolastica”? Pensalo fatto dai ragazzi con la macchina fotografica.[10]
Potrebbe sembrare strano per
uno come Zavattini che in una intervista a Giuliani di Progresso fotografico dice:
-Ho il complesso della timidezza nei confronti di ogni tipo di macchina. Mi scordo le regole per manovrarla, faccio tanta confusione tra gli avanti e gli indietro e la messa a fuoco ecc.[...] Volevo mescolare fotografia e letteratura, mi spiego? Invece ho dovuto rinunciare, come ho rinunciato a tante altre cose della mia vita. Dopo i primi tentativi andati a vuoto ho venduto la macchina fotografica.
-Però lei ha presieduto a molte giurie di concorsi fotografici, come si spiega?
Verissimo. E lo si spiega col fatto che tanto la fotografia come il cinema sono i miei grandi amori, solo che si fermano al momento conclusivo, cioè della «pratica». Possiedo moltissimi libri di fotografia e la seguo continuamente nella sua evoluzione. Seguo tutto ciò che appartiene a mezzi di comunicazione sociale e ho riscontrato che tutti si uniscono, si compendiano, quasi si confondono.[...] La fotografia mi interessa come analisi del momento in cui la scatto.
Per Zavattini la fotografia è un grande amore, malgrado
egli non sia capace di usare la macchina fotografica, ma questo non è assolutamente importante perché in un manuale edito
dalla Ilford: Fotografia macchina per
insegnare[11],
troviamo un ampio capitolo dedicato alla fotografia realizzata senza macchina
fotografica, utilizzando solo i bagni di sviluppo, fissaggio e la carta
fotografica sensibile.
Nièpce è considerato da molti
l’inventore della fotografia, ma la prima immagine che Nièpce ottenne fu per
azione della luce su una sostanza sensibile, il risultato di una “copia a
contatto”.
Quando si utilizza una
macchina fotografica interviene un fattore
determinante per poter “scrivere con la luce”, esso è il tempo di esposizione
che è costitutivo di ogni apparecchio fotografico. La ghiera dei tempi, nelle
moderne macchine fotografiche, si trova sul corpo macchina, essa determina
l’apertura e la chiusura di un otturatore che regola la quantità di luce che
colpisce la pellicola sensibile all’interno della camera obscura.
Il tempo quindi in fotografia entra dalla porta principale e
molto bene, il famoso Piccola storia
della fotografia di Benjamin, ha messo in evidenza questo punto nodale del procedimento che porta
alla realizzazione di immagini fotografiche.
Zavattini in questo discorso
è chiamato direttamente in causa per il suo chiodo fisso consistente nel
cercare il più da vicino possibile l’adesso,
l’accadendo,
l’oggi, il subito.
Cercare di avvicinarsi il
più possibile alla realtà nel modo quasi ossessivo di Zavattini, sembra il tentativo di
riprodurre il mondo attraverso la mediazione di un obiettivo fotografico o
della macchina da presa, facendo in modo che la
«realtà» diventi più ”reale”, sia sentita più vicina a noi.
D’altronde questo è sembrato
il frutto del sodalizio Zavattini-Strand, e del neorealismo in generale: documentare la «realtà» liberandola da decenni di «realtà» fascista.
Il libro Un paese, del 1955, è arrivato dopo i
grandi film neorealisti, ma anche lì c’era
l’esigenza di liberare la fotografia da quella sua intrinseca
disponibilità a caricarsi di finzione: un esempio di questo carattere negativo
della fotografia lo descrive la fotografa francese Gisèle Freund:
[…] Prima della guerra, la vendita e l’acquisto dei titoli alla Borsa di Parigi si svolgevano ancora all’aperto, sotto i portici. Un giorno, feci tutta una serie di fotografie, prendendo come bersaglio un agente di cambio. Ora sorridente, ora angosciato, asciugandosi il viso rotondo, esortava il pubblico con grandi gesti. Inviai le fotografie a diverse riviste illustrate europee con il titolo anodino Istantanee della Borsa di Parigi. Qualche tempo dopo ricevetti i ritagli di un giornale belga e quale fu la mia sorpresa nel vedere le mie fotografie accompagnate da un grosso titolo: Rialzo alla borsa di Parigi, alcune azioni raggiungono prezzi favolosi. Grazie a sottotitoli ingegnosi, il mio innocente piccolo servizio acquistava il sapore di un avvenimento finanziario. Lo stupore per poco non mi paralizzò quando qualche giorno dopo ritrovai le stesse fotografie in un giornale tedesco, questa volta con il titolo Panico alla Borsa di Parigi, fortune crollano, migliaia di persone rovinate. Le mie immagini illustravano perfettamente la disperazione del venditore e lo smarrimento dello speculatore sull’orlo della rovina. Era evidente che le due pubblicazioni avevano dato alle mie fotografie un significato diametralmente opposto , che rispondeva alle rispettive intenzioni politiche. L’obiettività dell’immagine è soltanto un’illusione. Le didascalie che la commentano possono mutarne radicalmente il significato.[12]
Le foto di Strand commentate da Zavattini sono
servite a rafforzare e indirizzare la lettura dell’immagine verso la realtà: Luzzara, un paese campione per documentare tanti altri paesi di un’Italia impegnata a
rimarginare le ferite della grande guerra.
La fotografia, nell’ottica zavattiniana, aiuta a rimuovere quel velo tra noi e le
cose, a restituirci la realtà, a conoscere gli uomini: i quali pensano di conoscersi quando
affermano di essere contrari alla guerra, ma questa risulta essere una conoscenza sbagliata quando accettano la
guerra come qualcosa di ineluttabile. Con le parole diciamo di essere contrari alla
guerra, ma le parole sono marce, bisogna liberarsene, perché «la guerra», dice
Antonio, (il protagonista del film La
Veritàaaa), «è
l’effetto di tutte le nostre pigrizie».
La fotografia, se ben utilizzata, può essere un mezzo per approfondire la conoscenza
di sé che non può essere slegata dal
dialogo, dal confronto con gli altri, essa può aiutarci, partendo dall’«adesso» a ragionare sul passato.
Zavattini arriva a fantasticare, nel commentare «la scomposizione di una
fotografia di G. Becchi che ritrae un treno e un gruppo di braccianti in posa»,[13]
uno strano tipo di macchina fotografica che non si deve fermare
all’adesso e al passato, ma deve poter fotografare l’istante futuro, il «poi».
Il tempo reificato dal ciclo delle
stagioni può anche essere fissato attraverso le immagini delle fasi di crescita e
sviluppo di bambini che diventano adulti.
I bambini e gli adulti che nei film di Zavattini
invertono i ruoli: il piccolo Bruno, nel film Ladri di Biciclette, sembra molto più assennato del padre.
L’enorme rispetto per la
«meravigliosità», per la semplice complessità dei bambini, induce Zavattini a incoraggiare i fotografi a seguire i loro giochi
cercando di cogliere, senza che se accorgano, quanto di misterioso e magico viene celato agli occhi degli
adulti: «per farci sentire la misteriosa e impreveduta ricchezza dei loro
movimenti»[14]. Non
dimentichiamo che i bambini sono sempre attenti, I bambini ci guardano, sono attirati da ogni particolare, da ogni
dettaglio: allo stesso modo Zavattini è attento al mondo con quel vitalismo,
quell’esuberanza fisica e intellettuale tipica del bambino in crescita.
La comunanza col mondo
bambino si fa evidentissima nelle
immagini che Zavattini produce in prima
persona:
Quel mondo in cui realtà e magia confluiscono nella
primordiale indistinzione dove tutti siamo ricompresi: quel mondo
preoperatorio, in cui il singolo e le parti non sono stati definiti, in cui il
banale non esiste, in cui tutto è
importante e niente e nessuno può essere escluso pena la perdita del tutto.
Le prefazioni e le presentazioni di Cesare Zavattini
sia che si tratti di scrittori sconosciuti, sia che si tratti di poeti o
pittori conosciuti, iniziano sempre col ricordare il momento in cui lo stesso
Zavattini ha incontrato per la prima volta l’artista in questione. Vengono poi
descritti soprattutto aspetti di vita quotidiana che poco sembrano avere a che
fare con le opere prodotte.
Le prefazioni sembrano
parlare di tutto tranne che dell’argomento a cui sono destinate, salvo
riprendere il tema nel finale con una stoccata dritta dritta al cuore del
lettore.
A volte illustri sconosciuti si presentavano
in via Merici e, dopo aver letto qualche pagina del loro libro chiedevano:
«allora lo pubblico?... Mi farebbe una prefazione?»[17].
Altre
volte alle prese con personaggi e artisti veramente famosi le sue presentazioni
sembrano pretesti per parlare tanto di sé.
E’
proprio con Parliamo tanto di me[18] che
si ha il primo contatto con la
fotografia e il primo rapporto di
Zavattini con Zavattini: un se stesso che è come un altro:
Sul tavolo da lavoro ho pochi oggetti: il calamaio, la penna alcuni fogli di carta la mia fotografia. Che fronte spaziosa! Cosa mai diventerà questo bel giovane? Ministro, re?
Guardate il taglio severo della bocca, guardate gli occhi. Oh, quegli occhi pensosi che mi fissano! Talvolta provo una viva soggezione e dico: sono proprio io? Mi do un bacio sulle mani pensando che sono proprio io quel giovane, e mi rimetto a lavorare con lena per essere degno di lui.[19]
Questa
difficoltà, lo stentare a riconoscersi nella propria fotografia, tanto da provare il bisogno di aggiungere all’esperienza visiva,
un’esperienza tattile, può trovare riscontro nella difficoltà che proviamo nel
rappresentarci il nostro aspetto esteriore. Infatti chi di noi non ha provato
disagio nel guardare una propria fotografia, per la sua intrinseca
manchevolezza a rendere quello che siamo? Per capire di più questa sorta di
rispecchiamento nel proprio ritratto, potrà essere utile più avanti chiamare in causa
Bachtin[21], e il suo
paragonare la nostra immagine allo specchio con la nostra immagine
fotografata.[22]
Il
tema della fotografia proseguirà nei libri
fotografici in cui Zavattini sempre darà un formidabile contributo letterario
che sembra non potersi ormai più distaccare da quelle fotografie per le quali è stato pensato.
L’inizio
di questa serie di libri fotografici nasce dalla forzata rinuncia al progetto Italia mia più volte sottoposto a
registi produttori ed infine editori. Questo progetto nasce a sua volta da una
vecchia idea di Zavattini subito dopo la guerra: Roma Napoli e ritorno e dall’entusiasmo con cui
Vittorio De Sica condivide l’idea Viaggio in
America:
[…] di un film senza copione, ma che si crei di volta in volta immediatamente per mezzo dei nostri orecchi e dei nostri occhi a contatto con la realtà.(Questo è il vero destino del neo-realismo, secondo me.) I fatti ci sono, bisogna andare a sceglierli, a coglierli nel momento in cui succedono ... Ed ora lasciamo perdere il giro del mondo che considero un’idea decaduta rispetto a Italia mia. Però mi è stata utilissima. Infatti mi sono detto: perché non usare la formula Il giro del mondo per Italia mia?
In altre parole, noi due dopo una ragionevole preparazione
a tavolino, addirittura qualche assaggio non lontano da Roma,
perché non partiamo per un viaggio di tre mesi attraverso l’Italia? Torneremo a
Roma con alcune migliaia di metri di pellicola da montare...Capiteremo in un
paesino di cui forse poche centinaia di persone sanno il nome. Ci fermeremo
pochi minuti (voglio dire che apparirà come se ci
fossimo fermati pochi minuti; invece ci fermeremo il tempo necessario per mettere assieme quei pochi minuti di pellicola);
più che un film di episodi sarà un film di momenti.[...] Anche un breve dialogo scambiato in un minuto di sosta con un cantoniere lungo una strada
qualsiasi può avere valore drammatico pertinente al quadro che vogliamo dare.
All’alba risuona il corno che chiama gli analfabeti a scuola, contadini di tutte le
età che prima di cominciare il lavoro nei campi vanno un’ora a scuola. In un altro paese vediamo un matrimonio. In un altro quelli che partono per il
Venezuela ; in un altro la nascita di un bambino.[23]
Neanche
questo progetto va in porto malgrado sia stato proposto anche a Roberto
Rossellini in una lettera del 16 dicembre 1952[24]
con una serie di appunti che dovevano essere i momenti del film Italia mia. Sfumata la possibilità di realizzare il film, Zavattini
dà vita a una collana editoriale con Einaudi chiamata nello stesso modo. E’
così che viene alla luce, in collaborazione con il
grande fotografo Paul Strand, Un paese,
il libro che unisce un testo vivo alle immagini di contadini, farmacisti e
ragazzi di Luzzara: il paese di Zavattini.
Il
secondo grande libro su Luzzara, Zavattini lo fa insieme a Gianni Berengo Gardin, fotografo italiano di grande valore che dopo aver ripreso il discorso
di Paul Strand, fotografando le stesse persone
«vive, vivissime», continua per la sua strada, ma non per
questo meno bella di quella del suo ingombrante predecessore.
Il
sodalizio di Zavattini con Gianni Berengo Gardin continua con l’aggiunta di un
altro validissimo fotografo italiano: Luciano D’Alessandro. Con questi due fotografi vedono la luce Dentro le case[25] e Dentro il lavoro [26].
Nel
1979 Zavattini scrive una prefazione a un’antologia di immagini, tratte dalla fototeca del Touring Club Italiano, scattate tra fine
ottocento e inizio novecento[27].
Il tema degli altri è qui alla sua massima esplicazione, connaturato al sentirsi
uguale agli altri. Guardando le antiche foto Zavattini sente empaticamente che:
[...] passato e
presente si
uniscono senza soluzioni di continuità nel mio animo. Pensate che una volta era
proprio la “fotografia” più di ogni altro mezzo di comunicazione, a sottolineare detta differenza. Adesso mi identifico coi miei antenati e antenatissimi al punto da sentirmi fotografato
con loro, e guardo se per caso non ci sono anch’io fra quei bambini (si ficcano dappertutto) sparsi
qua e là nelle pagine, in via Maqueda a Palermo, nel patinoire del Valentino
caro a Nino Oxilia, sotto la mitica Galleria milanese.
Credetemi, fino a
poco tempo fa
una stessa istantanea di
me, immediatamente sviluppata, creava perfino nel mio cuore una diversità di me con me, malgrado il mio
unico e imperturbabile nome e cognome[28].
Come non cogliere in
quest’ultima frase un riferimento implicito alla domanda fatta quasi 50 anni
prima ai lettori del suo primo racconto, quando insieme ai pochi oggetti sul tavolo: il
calamaio, la penna e alcuni fogli di carta c’è posizionato in bella mostra il
suo ritratto fotografico al quale si rivolge: «Oh, quegli occhi pensosi che mi fissano! Talvolta provo una viva
soggezione e dico: sono proprio io?».
La riconciliazione con sé
sembra ormai avvenuta in quell’immedesimarsi di Zavattini con tutte le persone
ritratte nelle pagine dell’antologia del Touring. Dagli «antenatissimi» ai bambini, che sparsi un po’ dovunque
in quelle antiche fotografie conservano intatta l’energia
vitale tipica dei bambini che evapora dal foglio stampato.
Attraverso un itinerario tra
i più complessi che ha avuto la sua spinta propulsiva in questa voglia mai doma
di dare a tutto una dignità e uno spazio: nel ritenere tutto indispensabile e da tenere nella più alta
considerazione, del parlare di tutto quello che vedono gli occhi cercando di
non tralasciare niente, ecco che un filo d’erba un po’ secco ha la stessa
dignità del filo d’erba che gli sta accanto, e si dovrebbe parlare di tutti i
fili d’erba, ad uno ad uno, e si dovrà passare al successivo solo dopo averne
parlato a sufficienza, perché questi fili d’erba non chiedono altro che essere
fili d’erba[29].
Se importanti sono i fili
d’erba figuriamoci quanto più lo
saranno gli uomini, e allora bisogna descrivere «l’accadendo» di ogni rappresentante dell’umanità, perché solo nel descrivere sé e
gli altri si capiscono gli altri per poi ritornare a conoscere se stessi.
Scrive Zavattini, a
proposito del cinema, in una lettera a
Gianfranco Calderoni: «Potrei dire che tutti
quei film che portano l’uomo a conoscere meglio sé e gli altri, sono film di un
cinema utile[31]».
Un cinema utile
quindi che serva a conoscere sé tramite la conoscenza degli altri, «dalla mia voglia di capire gli altri, che
qui si chiamano italiani, alla mia fede che sorgano continuamente fatti degni di racconto laddove molti credono non ce ne siano[32]».
Per tornare alla fotografia, Zavattini nella prefazione del libro Dentro il lavoro, scrive:
«Invece di pagine qui si sfogliano degli uomini che, all’inizio separati dalla
diversità dei mestieri, finiscono poi con l’acquistare una misteriosa affascinante comunanza che deve essere quella
originaria della nostra specie[33]».
Dice più avanti che malgrado ci siano nel mondo
sette miliardi di persone, tutti sarebbero meritevoli di altrettanta
attenzione, perché non ce ne sarebbe neanche uno da trascurare, infatti non ci
sono due impronte digitali uguali né due abitanti uguali nel nostro pianeta;
però «se ne manca uno solo della miriade che siamo, la stessa realtà vacillerebbe. Se nel cerchio manca quell’uomo, per poco che sia, si causa un tale scompenso da derivarne moti
tellurici e altro»[34].
Successivamente, grazie a un
«sommo» fotografo, Zavattini sembra rinsaldare ancor di più il concetto di
uguaglianza con gli altri uomini e ammonisce, come il vecchio
Parmenide faceva coi suoi discepoli, a non farsi assorbire dall’inganno del
diverso, del finto movimento del diverso così come sembrava insegnare Strand[35] il quale:
Viaggiava, lo sappiamo, ma era sempre fermo. Faceva dei conti elementari, assoluti. Mai poteva cadere nello stupore dell’esotico: quando andava nell’immenso Messico o nel mio piccolo paese padano, era la stessa cosa, svolgeva lo stesso tema, il valore del nostro essere. […]Non era mai astratto, anziché divagare concentrava gli attributi terreni. Votava, lottava, con la sua discrezione e l’istinto della democrazia, la quale avrebbe voluto rendere in una sola immagine.
Lo stringersi della
democrazia in una sola immagine è segno della ricerca di includere l’infinita
molteplicità della realtà in un cerchio, in un’unica cosa in cui
sentirsi tutti compresi; adulti e bambini, sé e gli altri, fosse anche solo una
parola[36]. Cercare il
filo rosso che possa dare un senso a questo nostro essere gettati nel mondo è
stata la grande pretesa di un uomo alla ricerca di senso, alla
ricerca degli altri anche soltanto nell’osservarli nella pura quotidianità o
semplicemente pedinandoli.
Nel ritenere tutti
indispensabili e di parlare di tutto quello che vedono gli occhi per lasciarlo
poi, andare solo quando se n’è parlato con pazienza.
Continuando a leggere la
presentazione al libro del grande vecchio della fotografia mondiale, Zavattini non può non
ricordare una presenza costante in tutte le sue opere: i bambini, argomento che solo di recente ha dato vita ad un libro tutto su Zavattini e i bambini.[37]
Mi ricordo che intorno a quegli anni del cinquantacinque io mi battevo affinché la macchina fotografica fosse introdotta nelle scuole, affidata nelle mani dei fanciulli.
Ho scritto e
riscritto e trasferito perfino sullo schermo la convinzione che anche con tali
strumenti è possibile il ritrovamento, però irraggiungibile senza la verificata
collaborazione di tutti. L’offesa che l’uno fa contro l’altro oggi come ieri consiste nel togliere dal contesto, dal dramma, dal
confronto, anche uno solo; Strand non ne escludeva neanche uno. Siamo stati e siamo per lui eroi dal
primo all’ultimo.[38]
Il ritrovamento sarà
possibile solo senza togliere nessuno dal contesto, dal confronto; si
pensi all’appello rivolto ai partecipanti del concorso fotografico del 1957[39],
e cioè quello di svolgere qualsiasi tema che abbia a che fare con Il giorno degli italiani, sarebbe stata
una prova dell’attenzione nei confronti degli altri. Immagini che dovevano informare nel modo più dettagliato su un fatto, su una persona, su un lavoro. Una partita a bocce, l’espressione
di un operaio durante la sua fatica e poi tutta una serie di attimi da
immortalare: da situazioni di intima umanità come il risvegliarsi di una
famiglia, al fotografare un bambino mentre gioca assorto cercando
di non farsi scoprire per non turbare la sua spontaneità.
E’ forse in questa ricerca della quotidianità nella sua
inesauribilità, in questa religione del
“subito”[40] che si deve cercare la
fonte inesauribile, molteplice e
variegata della produzione
zavattiniana: un’attività che non si è mai risparmiata, che non ha mai lesinato
le pepite del capiente sacco d’oro per ogni direzione di ricerca intrapresa.
Come Strand possedeva una natura
semplificatrice, così anche Zavattini, sembra ritrovare l’autenticità nel
ritorno a sé in quel cerchio, ma solo dopo essere stato altro negli altri. Nella semplicità di quel cerchio in cui tutti sono uguali e grandi,
avviene il passaggio dalla dispersione alla permanenza a qualcosa che annulli
le differenze tra passato e presente:
che ieri è uguale a oggi, che io mi sento uguale agli altri. […] Ma la realtà è infinita, ha ben altro che occuparsi delle nostre somiglianze personali e pagliette, è talmente infinita che la gente ci si disperde dentro. Non è vero! Mi permetto di sostenere che nel cerchio la realtà comprende tutti, quelli del Ponte Rosso a Trieste e il tipetto solitario nel Bosco di Biella seduto a pagina 144 col suo bastone da passeggio. Non solo, ma anche se manca uno solo della miriade che siamo (per caso o per dolo) non sarebbe più la realtà ma la realtà meno uno. Desiderate sapere di più?
Se nel cerchio manca quell’uomo, per poco che sia, si causa un tale scompenso da derivarne moti tellurici e altro. Chi lo immaginerebbe?[41]
[1] Cfr.W. Moro, Didattica della comunicazione visiva, La Nuova Italia, Firenze,
1985.
[2] Cfr. M.Martin, tit.
orig. Sémiologie de l’image et pédagogie. Pour une péedagogie de la
recherche.1982/
Semiologia dell’immagine e pedagogia. Itinerari di ricerca educativa, Armando editore, Roma,
1990.
[3] Cfr. Danna S., – Di Fant A., L’educazione all’immagine nella scuola elementare, Editrice La Scuola, Brescia,
1989. Cfr. M.Scuro Il mondo delle immagini, Quattroventi, Urbino,
1987.
[4]
M. Tardy, Per una didattica dell’immagine,
S.E.I., Torino,
1968, p.81.
[5] G. Gambetti, Zavattini. Mago e tecnico,Ente
dello spettacolo, Roma, 1986,pp.54-55.
[6] Ibidem
[7] F. Birri, Za e l’America Latina, in
AA.VV., C. Zavattini.Una vita in mostra,
a cura di Paolo Nuzzi, Edizioni Bora, Bologna,
1997, p. 261.
[8] C. Zavattini . Mago e tecnico, cit., p.53.
[9] Ibidem
[10] Cfr. I racconti fotografici di «Cinema Nuovo» (1955) poi in C. Zavattini C., Gli Altri, a cura di P. L. Raffaelli, Bompiani, Milano, 1986, p. 16.
[11]
AA.VV., Fotografia macchina per insegnare. Appunti
per una ricerca sull’uso didattico dell’immagine fotografica, ILFORD Foto/gram, Saronno,
1979.
[12] Cfr. C. Marra, Pensare la fotografia. Teorie dominanti dagli anni sessanta ad oggi, Zanichelli, Bologna, 1992, p. 44.
[13] Cfr. C. Zavattini, Gli
Altri, op. cit., pp.233-239.
[14] C. Zavattini, Concorso fotografico: 4 CHIACCHIERE CON GLI ITALIANI FOTOGRAFI, 1958.
[15] C. Zavattini, Folla,
1973-Tecnica mista su cartoncino, 10,5X13
[16] Disegno di Benedetta
all’età di 4 anni, 1994.
[17] Alla domanda di Anacleto
Lupo, giornalista professionista, autore del romanzo «L’altra riva», Zavattini scrisse: «[…] combinammo
che: in cambio della prefazione mi avrebbe accompagnato a vedere San Bartolomeo
in Galdo e gli assicurai che sarei stato meno impaziente della consorte del
protagonista»; in: C. Zavattini, Gli
Altri, a cura di Pier Luigi Raffaelli, Bompiani, Milano 1986 pp. 125-126.
[18] Cfr. C. Zavattini, Parliamo tanto di me, Bompiani, Milano
1931.
[19] Ivi, p. 3.
[20] Cesare Zavattini, giovane
studente.
[21] Michail Bachtin, Estetika slovesnogo
tvočestva, (1940), trad. italiana a cura di a cura di Clara Strada
Janovič, L’autore e l’eroe, Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988.
[22] Ivi, p. 32.
[23] Lettera inviata a Vittorio
De Sica da Chianciano il 24 ottobre
1951; in: C. Zavattini, Una, cento, mille
lettere, Bompiani, Milano, 1988, pp. 389-390.
[24] Ivi, p. 397.
[25]Cfr. C. Zavattini, G.Alario, P. Carbonara, foto di G. B .Gardin e L.
D’Alessandro, Dentro le case. Electa, Roma, 1977.
[26]Cfr.C. Zavattini, B. Corà, G. Giannotti, foto di G.B.Gardin e L. D’Alessandro, Dentro il lavoro,
Electa, Roma, 1978.
[27] C .Zavattini, P. Monti, a cura di M. Raffaella, F. Ceccopieri, G. Manzutto, Foto d’Archivio Italia tra ‘800
e ‘900, T.C.I., Milano, 1979; poi
in C. Zavattini, Gli Altri, a cura di
P. L. Raffaelli, Bompiani, Milano 1986 pp.
218-227.
[28] C. Zavattini, Gli Altri, op. cit. pp.218-219.
[29] C.Zavattini, Ipocrita 1943, (1955)/ Opere 1931-1986, introduzione di Luigi
Malerba a cura di Silvana Cirillo, Bompiani, Milano, 1991, p.308.
[30] «Zavattini colto mentre sta
dirigendo uno degli episodi di Amore in città», su CINEMA, fascicolo 109, maggio
1953.
[31] C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, op.cit.,
p.249.
[32] Progetto Italia mia: lettera a V. De Sica, Una, cento, mille lettere,
op. cit., p.173.
[33]C. Zavattini, Dentro il lavoro,(1978)/ Opere 1931-1986, op. cit., p.1753.
[34] C. Zavattini, Foto d’Archivio Italia tra ‘800 e ‘900,
(1979)/ Opere1931-1986, op. cit.,
p.1773.
[35] Presentazione scritta nel
1983 per l’edizione italiana della monografia: Paul Strand:60 years of Photography stampato a New York, pubblicata dalla Idea Books di
Firenze, poi in Opere 1931-1986, op. cit,. pp. 1815-1816.
[36] C. Zavattini, Stricarm’ in d’una parola, (1973)/ Opere 1931-1986, op. cit., pp. 905-968.
[37] Cfr. N. Siciliani de Cumis, Zavattini e i bambini. L’improvviso, il sacro e il profano, con una postfazione di A. Santoni Rugiu, Argo, Lecce, 1999.
[39] Ivi, p.1633.
[40] N. Siciliani de Cumis, op. cit., pp. 29-56.
[41] C. Zavattini, Foto d’archivio Italia tra ‘800 e ‘900,
(1979)/ Opere 1931-1986, op. cit.,
pp. 1772-1773.