UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA
“LA SAPIENZA”
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CATTEDRA DI PEDAGOGIA GENERALE
TESI DI LAUREA
“NICCOLÒ MACHIAVELLI E L’EDUCAZIONE”
RELATORE: Prof. Nicola Siciliani de Cumis |
CORRELATRICE: Prof.ssa Marta Fattori |
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LAUREANDO:
Manuel Anselmi
Matr. N. 10121650
ANNO ACCADEMICO 1999-2000
Profilo di capitano antico
(Leonardo da Vinci). Londra, British Museum.
E
quando alcun colpassi la natura
se
in Italia, tanto afflitta e stanca,
non
nasce gente sì feroce e dura,
dico
che questo non escusa e franca
la
viltà nostra, perché può supplire
l’educazion
dove natura manca.
Niccolò Machiavelli, Dell’Ambizione.
Sommario |
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Introduzione. |
p. 13 |
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. |
25 |
Il proemio. |
27 |
Il capitolo quarto del primo libro,
intitolato: “Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e
potente quella repubblica”. |
34 |
Il capitolo undicesimo del primo libro,
intitolato: "Della religione de’ Romani". |
41 |
Il capitolo secondo del secondo libro,
intitolato: “Con quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come
ostinatamente quegli difendevano la loro libertà” |
49 |
Il capitolo ventisettesimo del terzo libro,
intitolato “ Come e’ si ha a unire una città divisa, e come e’ non è vera
quella opinione che, a tenere le città, bisogni tenerle divise”. |
73 |
Il capitolo trentesimo del terzo libro,
intitolato: “A uno cittadino che voglia nella sua republica fare di sua
autorità alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l’invidia: e come,
venendo il nimico, si ha a ordinare la difesa d’una città.” |
91 |
Il capitolo trentunesimo del terzo libro,
intitolato “Le republiche forti e gli uomini eccellenti ritengono in ogni
fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità.” |
106 |
Il capitolo quarantatreesimo del terzo libro,
intitolato: “Che gli uomini che nascono in una provincia osservino per tutti
i tempi quasi quella medesima natura.” |
118 |
Il capitolo quarantaseiesimo del terzo libro,
intitolato: “ Donde nasce che una
famiglia in una città tiene un tempo i medesimi costumi”. |
127 |
Dell’arte
della guerra . |
134 |
Formazione, politica e guerra. |
136 |
Conclusioni.
|
157 |
Machiavelli e
l’educazione. |
159 |
Appendice. Capitoli
del testo di Niccolò Machiavelli relativi alle occorrenze del termine
educazione. |
165 |
Cronologia |
209 |
Indicazioni bibliografiche. |
221 |
Indice analitico dei nomi e delle tematiche |
235 |
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Avvertenza.
L’edizione dei Discorsi
alla quale si farà riferimento è: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
intr. di G. Sasso, premessa e note di G.
Inglese, Milano 1984. Per tutte le altre opere di Niccolò Machiavelli si
rimanda a: N. Machiavelli, Tutte le opere,
a cura di M. Martelli, Firenze, 1971.
Introduzione.
La storia della critica e della fortuna di Niccolò Machiavelli[1]
mostrano quanto quest’autore sia stato frainteso. Nel corso dei secoli il suo
pensiero è stato racchiuso in formule, deformato, rozzamente interpretato, al
punto che ancora oggi in Inghilterra il diavolo viene chiamato old nick[2],
vecchio Niccolò, e in Italia, negli ambienti cosiddetti colti, qualcuno lo
indica come l’autore dell’espressione ‘il fine giustifica i mezzi’, peraltro mai detta[3].
In ambito storiografico, si sono avuti decisivi studi nella seconda metà dell’Ottocento[4], ma è nel ventesimo secolo che si è fatto molto per dare una lettura critica del suo testo. Nel 1969, a Firenze, in occasione del quarto centenario della sua nascita, lo storico della filosofia Eugenio Garin, dovendo tenere una conferenza, la intitolò Machiavelli pensatore[5]ed affermò che chiunque “ritorni alla parola di Machiavelli, nettissima sì ma non mai distaccata, non può non cogliere oltre ogni presunto limite o ambiguità, una concezione dell’uomo e della storia criticamente elaborata attraverso l’uso consapevole di precisi strumenti razionali”[6]. Si trattò di un giudizio che riconosceva una volta per tutte la profondità della speculazione del Segretario Fiorentino, dissolvendo tante esitazioni a riconoscergli una grandezza di pensiero, mostrata in primo luogo dagli studiosi di Machiavelli[7].
Oggi, a più di trenta anni da quella conferenza e dalla pubblicazione degli studi di Gennaro Sasso[8], è fuori di dubbio che il testo di Machiavelli meriti una considerazione filosofica: cosa che, per lo studioso, si traduce nel non perdere mai di vista la complessità del suo pensiero, nell’esulare dalle sintesi semplicistiche della sua dottrina, specie se l’oggetto di studio ne è una parte, un aspetto, cosiddetto, secondario.
È in questo vasto e complicato
orizzonte speculativo che si colloca uno studio su che cosa Machiavelli intenda per educazione, su quell’aspetto di
educatore del Machiavelli pensatore. È bene chiarire infatti che il Cinquecento
e, più estesamente, l’intero momento umanistico-rinascimentale, è pieno di
intellettuali ai quali l’appellativo di educatore s’addice più propriamente che
a Niccolò Machiavelli: un Guarino da Verona, un
Vittorino da Feltre, un Comenio[9],
si guadagnano indiscutibilmente un
simile epiteto, e annoverare tra questi il Segretario fiorentino è certamente
fuori luogo. Tuttavia è indiscutibile che nella sua opera è presente una dimensione educativa, questo è l’oggetto
della presente ricerca.
Per sondare il ruolo ed il valore
del concetto di ‘educazione’[10]
in Machiavelli, si è svolta una analisi
delle occorrenze di questa parola: e come prima cosa, si è fatta una
ricognizione di tutto il corpus di Machiavelli. Il risultato è stato che in opere
importanti e celebri come il Principe, le Storie Fiorentine e le Lettere essa è del tutto assente; mentre
un vero e proprio campo di valutazione da questo punto di vista lo forniscono i
Discorsi sulla
prima Deca di Tito Livio, dove la
frequenza è di 9 volte; per una sola volta, ma significativa, si ritrova
invece nel Dell’arte
della Guerra. Negli
scritti letterari si ha una sola occorrenza nel Dell’Ambizione.
In seguito si sono commentati i
passi cercando di ricostruire l’uso e quindi il significato[11]
del termine nel contesto sintattico, e, per ciascuno, ne è venuto fuori un
capitolo. Infine, in quelle che si è soliti definire conclusioni, alla luce dei
singoli commenti, si è cercato di tracciare un bilancio di questa ricerca e
delle prospettive che essa apre. Si è pensato, inoltre, di allegare
un’appendice antologica per fornire al lettore la possibilità di analizzare
integralmente e senza alcun commento i capitoli da cui sono stati tratti quei
paragrafi.
Degli esiti di
questa ricerca, quello che si preferisce anticipare nell’introduzione è
rappresentato dalla irriducibilità del concetto di educazione secondo Machiavelli ad una singola e rigida categoria. L’educazione non è un nodo
tematico della sua riflessione, bensì è un concetto, si dica così, di appoggio,
che interviene soprattutto in passaggi cruciali dell’esposizione di esempi
relativi le sue tesi più importanti. In questo senso si deve ammettere che si è
rilevata una rosa di significati, non opposti né contraddittori, ma di
sfumature differenti. Interessante è stato tentare di ricostruire, descrivere i
rapporti tra queste sfumature ed esplorare un minimo comune denominatore
semantico. Non solo; la prossimità del
concetto di educazione al nucleo della meditazione del Segretario ha permesso
d’illuminare alcuni tratti costitutivi della sua mentalità tanto nel suo
aspetto d’innovatore quanto in quello di uomo del suo tempo, e dal momento che
forniscono la migliore introduzione ad ogni discorso su Niccolò Machiavelli, è
opportuno presentarli sinteticamente.
1) Un principio
generale della visione machiavelliana è che la totalità delle cose, umane e
mondane, è pervasa da un moto incessante. La vita degli uomini, le loro azioni,
gli Stati, ogni cosa è in balia di un movimento necessario il cui andamento è
scandito dalle fasi naturali di nascita crescita e morte. La stasi è del tutto
esclusa, è qualcosa che non può essere, se non come rapporto di forze. Dice
infatti Machiavelli in un passo dei Discorsi: “sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo
stare salde, conviene che le salghino o che le scendino…”[12].
La prima conseguenza di questo dinamismo, sia interno ad ogni forma del reale
che tra le forme del reale, è il conflitto,
l’opposizione di una forma vecchia con una nuova, la rottura di qualcosa già
esistente per la formazione di un qualcosa che inizia ad esistere. Nell’ottica
machiavelliana il conflitto è in un certo senso l’essenza di tutte le
cose, perché tutte le cose mutando entrano in contrasto con sé stesse e con il
resto. Alla luce di ciò si deve intendere l’esaltazione della sana disunione tra ottimati e popolari all’interno del corpo repubblicano: la res publica, come ogni altro ente dell’universo, deve
alimentarsi del contrasto, per la propria sanità, secondo la propria
fisiologia.
2) Un altro aspetto peculiare del
pensiero di Machiavelli è il naturalismo[13],
che si svela ad esempio nell’uso di parole come corpo, nell’opposizione di
aggettivi come sano e corrotto[14].
In un celebre passo dei Discorsi egli dice “perché il fine della repubblica è enervare e indebolire,
per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi”[15].
Tra corpi politici e corpi naturali, non c’è alcuna differenza qualitativa,
tanto gli uni quanto gli altri nascono, si fortificano, si ammalano e muoiono.
La riflessione politica, allora, condividerà con
la medicina i medesimi criteri regolativi di sanità e malattia[16],
e Machiavelli, nel considerare i fenomeni, si troverà più prossimo ad un
fisiologo che a un fisico, più a un clinico che a un geometra.
3) Il terzo punto che è bene
sottolineare, è il ruolo centrale ed emblematico della guerra nei riguardi
degli eventi politici. Assunta come principio, trasposta nella dimensione umana
e politica, la conflittualità si traduce in guerra. Il momento bellico, per
Machiavelli, non è né secondario, né
disgiunto da quello politico, al contrario, è il momento politico per
eccellenza. La guerra è quella circostanza in cui si svela la natura di un popolo, i reali rapporti di forza, ed in cui si crea la
possibilità di un cambiamento di tutto ciò. La relazione guerra-politica sarà
quindi di continuità, ma non nel senso clausewiziano per cui la “guerra è il
proseguimento della politica con altri mezzi”, bensì, più
profondamente, nel senso che la politica, la vera e sana politica, si alimenta
di uno scontro continuo tra gli interessi effettivi dei suoi partecipanti teso
ad un nuovo rapporto di forze. Lo spazio della res publica si genera proprio dal confronto polemico delle parti sociali che la costituiscono, dalla
rivendicazione delle istanze, dalla mediazione tra le istanze, e dalla
regolamentazione, conseguente la mediazione, che investe l’intero corpo pubblico. Il cuore della repubblica è dinamico quanto quello di ogni altro ente della natura e perché
sia vivo deve essere in movimento e, perciò, conflittuale.
Ritratto di Niccolò Machiavelli.
( Santi di Tito)
Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
§.9. Il capitolo quarantaseiesimo del terzo libro, intitolato: “ Donde
nasce che una famiglia in una città tiene un tempo i medesimi costumi”.
[…] E’ pare che
non solamente l’una città dall’altra abbia certi modi e instituti diversi, e
procrei uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima città si veda
tale differenza essere nelle famiglie l’una dell’altra. Il che si riscontra
essere vero in ogni città e nella città di Roma se ne leggono assai esempli; perché e’ si
vede i Manlii essere stati duri ostinati, i Publicoli
uomini benigni e amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nemici della plebe, e così molte
altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall’altre. La
quale cosa non può nascere solamente dal sangue, perché conviene ch’e’ varii,
mediante la diversità dei matrimonii; ma è necessario che venga dalla diversa
educazione che
ha l’una famiglia dall’altra. Perché gl’importa assai che un giovanetto da’
teneri anni cominci a sentire dire bene o male d’una cosa, perché conviene di
necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo di procedere in
tutti tempi della sua vita. E se questo non fosse, sarebbe impossibile che
tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia e fossono
stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro; e per ultimo, essendo uno
di loro fatto Censore, e avendo il suo collega alla fine de’ diciotto mesi, come ne disponeva la legge, disposto il
magistrato, Appio non volle diporre, dicendo che lo poteva
tenere cinque anni, secondo la prima legge ordinata da’ Censori. E benché sopra
questo se ne facessero assi concioni e generassissene assai tumulti non
pertanto ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla volontà del Popolo
e del maggiore parte del Senato. E chi leggerà la
orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte le
insolenzie appiane, e tutte le bontà e umanità usate da infiniti cittadini per
ubbidire alle leggi e agli auspici della loro patria.[17] […]
Vista la brevità, si è riportato per intero il testo del capitolo, dove, per l’ultima volta nei Discorsi, si riscontra la parola ‘educazione’. La questione affrontata è di nuovo quella del mantenere sempre i medesimi dei costumi; un principio che Machiavelli desume dalle vicende umane, quasi come una resistenza insita nel comportamento degli uomini, un principio d’inerzia dal quale non si può prescindere per preparare la ‘materia’[18], come egli la chiama nel senso di ‘materia’ sociale, in vista dell’azione di governo, dell’atto politico.
La tesi generale che sottende tutto il discorso è che esistono delle differenze di comportamento tra i vari gruppi umani, dovute a differenti caratteri, e che questi caratteri, nel corso della storia, con difficoltà si perdono; anzi, proprio il loro permanere permette una prevedibilità del comportamento futuro e costituisce un criterio in base al quale si avrà un’indicazione di quali azioni saranno capaci. Vero è che l’espressione ‘gruppo umano’ alla quale si è ricorsi non è affatto machiavelliana per quanto generale ed esplicativa, il Segretario Fiorentino usa piuttosto espressioni quali ‘popoli’, ‘città’ (cittadinanze) e ‘famiglie’, e proprio su queste ultime che in questo capitolo egli si sofferma. Secondo Machiavelli, anche nelle famiglie, anche in questi piccoli nuclei di vita associata costituenti la città, si può vedere come vi siano delle diversità di carattere, e, soprattutto, come esse si perpetuino, perpetuandosi quei caratteri. È quanto si vede nell’antica Roma dove nella medesima città: i “ Manlii essere stati duri ostinati, i Publicoli uomini benigni e amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nemici della plebe, e così molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall’altre.” Machiavelli scende dalla realtà macroscopica dei popoli, a quella minore delle famiglie, riscontrando la stessa dinamica, lo stesso concetto.
Tuttavia, seppur concisamente, egli svela qualcosa di nuovo sulla propria convinzione dell’educazione e della formazione degli uomini. Il ragionamento è questo.
Quale causa del permanere nel tempo delle differenti caratteristiche delle varie famiglie, Machiavelli esclude chiaramente che si debba indicare solo il ‘sangue’, come lo chiama lui, vale a dire l’elemento naturale rappresentato dalla ereditarietà genetica, perché il vero fattore decisivo non è biologico, ma culturale: è l’educazione. È l’educazione che plasma i figli similmente ai genitori, è l’ambiente familiare che nei primi anni di vita di una persona, quando ancora è facilmente plasmabile ed educabile, stabilisce il comportamento che avrà da adulto. E lo stabilisce perpetuando, fissando nel fanciullo i propri modi adulti. Machiavelli usa la parola ‘impressione’: perché è l’impressione operata dalle sentenze degli adulti nella mente del fanciullo a regolarne l’agire da adulto. Così la spiega Machiavelli:
[…] La quale cosa non può nascere solamente
dal sangue, perché conviene ch’e’ varii, mediante la diversità dei matrimonii;
ma è necessario che venga dalla diversa educazione che ha l’una famiglia dall’altra. Perché
gl’importa assai che un giovanetto da’ teneri anni cominci a sentire dire bene
o male d’una cosa, perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da
quella poi regoli il modo di procedere in tutti tempi della sua vita.[19] […]
L’educazione, considerata sull’individuo, consiste in un’azione di modificazione, di condizionamento profondo, perché primario, del fanciullo, operato dagli adulti presenti nell’ambiente in cui cresce, per mezzo dei giudizi che quelli esprimono. È opportuno sottolineare come Machiavelli sia preciso nell’indicare le modalità secondo cui avviene l’impressione: sono i giudizi, i commenti degli eventi accaduti e da accadere che si fissano nella memoria ricettiva del fanciullo e che plasmano il suo carattere. Il bambino è colpito da ciò che gli adulti dicono di quello che è accaduto e che pensano che accadrà. È un processo di apprendimento mentale, in cui è coinvolta fondamentalmente la tenera ed ancora pura facoltà immaginativa dell’uomo nella sua tenera età. L’immaginazione fervida del bambino, simile ad una molle tavola di cera, assume forme in funzione dei giudizi che la incidono, e da adulto, quella forma dell’immaginazione conservata nella memoria, ne determinerà il vivere e l’agire. È una teoria che Machiavelli non espone da teorico: è una sua convinzione, da uomo del suo tempo forte delle proprie cognizioni di umanista del Rinascimento e preziosa alla luce di una ricostruzione storica del suo pensiero. Machiavelli non fu né uno pedagogo, né uno psicologo dopotutto. Da questa prospettiva, si giustifica il suo appello a studiare ed imitare gli antichi Romani, e a scrivere un testo come i Discorsi ed il suo diniego dell’educazione conseguente il cristianesimo. Gli uomini, egli sembra dire, si formano un’idea del mondo e delle possibilità dell’uomo nel mondo, quando ancora il mondo non lo conosco e sulla base del racconto e dei giudizi che gli adulti, agli occhi del fanciullo conoscitori del mondo, riportano loro. Persuasi da questa idea, i fanciulli vanno incontro al mondo e lo abitano. Lo studio dei gloriosi esempi antichi possono qualcosa solo in questo senso. La mancata considerazione di questo condizionamento, come appunto accade ai tempi di Machiavelli, comporta una ripetizione degli stessi uomini e delle stesse passioni, una ripetizione negativa. Invece una consapevolezza di questo condizionamento, porterebbe a cittadini adulti il cui vivere politico, oltreché omogeneo, sarebbe conforme a dei principi razionali di utilità e convenienza politica.
Non si può nascondere che su questo argomento in particolare Machiavelli svolge un’analisi che se da un lato accerta un’immutabilità, una fatalità delle cose umane, dall’altra, proprio spiegando in quale modo sia possibile siffatta immutabilità, apre la possibilità di un intervento e di un cambiamento. Ma questo è un tratto che, dopotutto, contraddistingue tutta la sua opera. Se infatti il suo pensiero può essere considerato riformatore, lo è in questi termini: egli denuncia uno stato di cose negativo e quasi impossibile da mutare, ma, mostrandone il profondo radicamento nella storia e nel quotidiano, ne indica anche la difficile via d’uscita. In una lettera a Guicciardini del 17 maggio 1521, Machiavelli scrisse: “perché io credo che questo sarebbe il vero modo ad andare in Paradiso, imparare la via dell’inferno per fuggirla”.[20]
Ad una prima considerazione tra datità storico-naturale e educabilità, sembrerebbe esservi una inconciliabilità, un’impossibilità, mentre invece la possibilità c’è, soltanto che è estrema, e richiede una grande azione di trasformazione, un grande di coraggio. È lo stesso Machiavelli ad affermarlo del resto in uno dei Capitoli, quello Dell’Ambizione quando dice:
E quando alcun colpassi
la natura
se in Italia, tanto afflitta e
stanca,
non nasce gente sì feroce e dura,
dico che questo non
escusa e franca
la viltà nostra, perché può supplire
l’educazion dove natura manca.
Questa
l’Italia già fece fiorire,
e di occupare il mondo tutto quanto
la fiera educazion le dette ardire.[21]
Conclusioni.
§ 11. Machiavelli e l’educazione.
Alla luce delle analisi delle
singole occorrenze, si può affermare che il concetto di educazione per Machiavelli non è rigidamente determinato,
ma assume delle sfumature semantiche che comportano differenti riflessioni,
distinte considerazioni teoriche.
1) Educazione e
religione. La stretta relazione del concetto di educazione con quello di religione, la condanna della religione cristiana e della educazione che ne
deriva, di contro, l’alto giudizio della religione degli antichi,
dell’educazione romana, configurano l’educazione come ciò di cui è permeata la
‘materia’ sociale.
L’educazione è quel condizionamento psicologico e morale che determina il vivere degli uomini
individualmente e collettivamente. È quel sistema di presupposti teorici, di
pregiudizi, di convinzioni, siano esse di natura religiosa, ideologica o
filosofica, che regola il vivere dei cittadini. È l’insieme delle condizioni
che determinano la funzionalità, il vivere stesso dell’organismo politico che ha una ben precisa
e forte finalità fisiologica: la salute e la forza di quella totalità che è l’organismo statale e delle parti che lo
compongono che sono i cittadini.
2)
L’apparente inconciliabilità della concezione della storia di Machiavelli con la possibilità stessa di
educazione, in quanto modificazione. Se, infatti , nonostante il procedere e lo
scorrere del tempo vi è uno permanente sostrato passionale, in funzione del
quale eventi differenti sono intelligibili e commisurabili, il rischio di un
determinismo e di un’immutabilità della storia escludono l’educazione.
Machiavelli supera quest’antinomia ammettendo una possibilità di cambiamento e
quindi una educabilità sulla base di una distinzione
di tipi di educazioni. Nella sua visione, una educazione che incida sul reale,
muti la processualità degli eventi, non potrà che essere una educazione storica. Educazioni che prescindano dalla storia, dagli esempi degli antichi, in
special modo romani, mancando di un modello umano concreto, saranno destinate a
soccombere alle ripetizioni della storia. L’imitazione perciò sarà il principio
necessario di un’educazione efficace. In questo Machiavelli rientra a pieno
titolo nella vulgata umanista, con la fondamentale differenza però che
Machiavelli non arriva alla necessità dell’imitazione soltanto dalla lettura
delle cose antiche ma soprattutto “da una lunga esperienza delle cose moderne”[22].
Il sapere, la conoscenza storica, sono finalizzati all’azione nel mondo, non alla
contemplazione delle cose del mondo. L’imitazione a cui Machiavelli pensa
comporta che l’esempio storico sia tenuto presente continuamente, sia vissuto,
portato dietro come uno schema d’azione e non intellettualmente
nozionisticamente contemplato.
3)
Guerra, azione ed educazione. La conoscenza storica
per Machiavelli non è fine a sé stessa ma strumentale
all’azione e l’educazione è il condizionamento dell’agire. Presupposto ciò si
comprende perché la guerra assuma un valore emblematico ed esemplare per la
politica. La guerra è la massima delle azioni. Nella dimensione bellica si
scoprono le qualità del popolo e dei reggitori di uno Stato.
La guerra è un momento essenzialmente politico, è quella circostanza
emblematica in cui la virtù o, per converso, la corruzione politica di uno Stato emerge, si
svela e produce massimamente i suoi effetti. E il momento della costituzione di
un esercito cittadino sarà dunque un vero e proprio esame del grado del valore
individuale e collettivo degli uomini di cui uno Stato è formato. E i criteri
di valutazione dell’educazione e della conseguente virtù di ogni singolo
soldato-cittadino, saranno gli stessi che varranno per un discorso più generico
sulla politica e i cittadini in tempo di pace. Come per il soldato, ogni
cittadino dovrà dimostrare un’educazione che produce quel senso di
responsabilità, quell’amore per la patria, quel vincolo profondo in forza dei quali ogni spinta egoistica potrà essere contenuta.
In definitiva, si deve dire che l’educazione su cui Machiavelli riflette e ragiona è un’educazione politica, che risponde ad esigenze essenzialmente politiche, e questo non perché semplicemente Machiavelli resta a tutti gli effetti un pensatore politico, ma perché se l’educazione non crea le condizioni della politica, del vivere associato degli uomini secondo regole, come sarebbero possibili concretamente altre finalità dell’educazione?
Appendice.
Capitoli del testo di Niccolò Machiavelli in cui si presentano le occorrenze della parola educazione.
Da
Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio[23].
Proemio B.
Considerando
io quanto onore s’attribuisca alla antichità, e come molte volte (lasciando
andare molt’altri esempli) un frammento d’una antica statua sia stato comperato
gran prezzo per averlo presso di sé, onorarne la sua casa, poterlo farlo
imitare da coloro che di quell’arte si dilettano; e come quelli poi con ogni
industria si sforzano in tutte le loro
opere rappresentarlo; e veggendo da l’altro canto le virtuosissime
operazioni che le istorie ci mostrano che sono state operate da’ Regni e
Repubbliche antiche, da’ re, capitani, cittadini, datori di leggi e altri che
si sono per la patria affaticati, essere più tosto con maraviglia lodate che
imitate (anzi, in tanto da ciascuno in ogni parte fuggite, che di quella antica
virtù non ci è rimaso alcun segno); non posso fare che insieme non me ne
maravigli e dolga. E tanto più, quanto io veggo nelle differenze che intra i cittadini civilmente nascono, o nelle
malattie nelle quali gli uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli
rimedii o a quelli giudizii, che da gli antichi sono stati giudicati o
ordinati. Perché le leggi civili non sono altro che sentenze date da gli
antichi giureconsulti, le quali ridotte in ordine a’ presenti nostri
giureconsulti giudicare insegnano; né ancora la medicina è altro che esperienza
fatta dagli antichi medici, sopra la quale fondano i medici presenti i loro
giudizii. Nondimeno, nell’ordinare le Repubbliche, nel mantenere gli stati, nel
governare i Regni, nell’ordinare la milizia e amministrare la guerra, nel
giudicare i sudditi, nell’accrescere lo imperio, non si trova né principe, né
Repubblica, né capitano, né cittadino, che agli esempli degli antichi ricorra.
Il che mi persuado che nasca non tanto dalla debolezza, nella quale la presente educazione ha condotto
il mondo, o da quel male che un ambizioso ozio ha fatto a molte province e
città cristiane; quanto dal non avere vera cognizione dell’istorie, per non
trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che l’hanno in
sé. Donde nasce che infiniti, che leggano, pigliano piacere d’udire quella
varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di
imitarle, giudicando la imitazione non solamente
difficile, ma impossibile: come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini,
fussero variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch’egli erano
anticamente. Volendo pertanto trarre
gli uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere sopra
tutti quegli libri di Tito Livio che dalla malignità de’
tempi non ci sono stati interrotti, quello che io, secondo le antiche e moderne
cose, giudicherò esser necessario per maggiore intelligenza d’essi, a ciò che coloro che questi miei discorsi
leggeranno, possino trarne quell’utilità per la quale si debba ricercare la
cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimeno,
aiutato da coloro che mi hanno a entrare sotto questo peso confortato, credo
portarlo in modo che a un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo
destinato.
Il
capitolo quarto del primo libro, intitolato: “Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella
repubblica”.
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che
furono in Roma dalla morte de’
Tarquinii alla creazione de’ Tribuni,
e dipoi alcune cose contro la opinione di molti che dicono Roma essere stata
una repubblica tumultuaria, e piena
di tanta confusione che se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata
inferiore a ogni altra repubblica. Io non posso negare che la fortuna e la
milizia non fossero cagioni dell’imperio romano: ma e’ mi pare bene che costoro
non si avveghino che dove è buona milizia conviene che sia buon ordine, e rade
volte anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri
particolari di quella città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i
Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono
prima causa del tenere libera Roma, e che considerino come e’ sono in ogni
repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’grandi; e come tutte le leggi che
si fanno in favore della libertà,
nascano dalla disunione loro, come
facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai
Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di roma rade volte
partorivano esilio, e radissime sangue. Né si possano per tanto giudicare
questi tumulti nocivi, né una repubblica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più
che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne
condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una repubblica
inordinata, dove siano tanti esempli di virtù, perché li buoni esempli nascano
dalla buona educazione, la
buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti
che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerò bene il fine d’essi, non troverò che egli abbiano partorito alcuno esilio o
violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della
publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii e quasi
efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato,
il senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le
botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventavano non
che altro chi le legge; dico come ogni città
debbe avere i suoi modi con i quali possa sfogare l’ambizione sua,e
massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo:
intra le quali città di Roma aveva questo modo, che quando il popolo voleva
tenere una legge, o e’ faceva alcuna delle predette cose o e’ non voleva dare
il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte
soddisfarli. E i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniciosi alla
libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspicione di avere ad
essere oppressi. E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio
delle concioni, che surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ei
s’ingannano; e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti sono capaci
della verità, e facilmente cedano quando da uomo degno di fede è detto loro il
vero.
Debbesi
adunque più parcamente biasimare il governo romano, e considerare che tanti
buoni effetti quanti uscivano di quella repubblica non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti furano
cagione della crezione de’ Tribuni meritano simma laude; perché oltre a dare la parte sua
all’amministarzione popolare, furano costituiti per guardia della libertà romana, come nel seguente capitolo si
mosterrà.
Il capitolo
undicesimo del primo libro, intitolato: "Della religione de’Romani".
Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere come figliuola il
nascimento e la educazione sua,
nondimeno giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastasserro a tanto
imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore
a Romolo, acciocché quelle cose che da lui fossero lasciate indietro fossero da
Numa ordinate. Il quale trovando un popolo ferocissimo, e volendolo
ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civilità, e la constituì in modo che per più
secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella repubblica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli
grandi uomini disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo
di Roma tutto insieme e di molti de’ Romani di per sé, vedrà come
quelli cittadini temevano più assai rompere il giuramento che le leggi, come
coloro che stimavano più la potenza di Dio che quella degli
uomini: come si vede manifestamente per gli esempi di Scipione e di Manlio
Torquato. Perché, dopo la rotta che annibale aveva dato ai Romani a Canne,
molti cittadini si erano adunati insieme, e sbigottiti della patria si erano
convenuti abbandonare la Italia e girsene in Sicilia, il che sentendo,
Scipionegli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare
di non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi
chiamato Torquato, era stato accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe; e
innanzi che venisse il dì del giudizio Tito andò a trovare Marco e minacciando
di ammazzarlo se non giurava di levare l’accusa al padre lo costrinse al
giuramento; e quello per timore avendo giurato gli levò l’accusa. E così quelli
cittadini, i quali lo amore della patria, le leggi di quella non ritenevano in
Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che furono forzati a pigliare; e
quel Tribuno pose da parte l’odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli
avea fatto il figliuolo, e l’onore suo,
per ubbidire al giuramento preso; il che non nacque da altro che da quella religione che Numa aveva introdotto in
quella città.
E
vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli
eserciti, animire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i
rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a
Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo
grado; perché dove è religione facilmente si possono introdurre l’armi, e dove
sono l’armi, e non religione, con difficoltà si può introdurre quella. E si
vede che a Romolo, per ordinare il Senato e per fare altri ordini
civili e militari, non gli fu necessario dell’autorità di Dio, ma fu bene
necessario a Numa, il quale simulò di avere dimestichezza con una Ninfa, la
quale lo consigliava di quello ch’egli avesse a consigliare il popolo; e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi e
inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse. E
veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non
ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate; perché sono molti
i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da
poterli persuadere ad altrui. Però gli uomin savi che vogliono tòrre questa
difficultà ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri
che hanno avuto il medesimo fine di loro. Meravigliando adunque il Popolo romano la bontà e la
prudenza sua, cedeva ad ogni sua deliberazione. Ben è vero che l’essere quelli
tempi pieni di religione, e quegli uomini con i quali egli aveva a travagliare
grossi, gli dettono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo
imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma. E sanza dubbio chi volesse
ne’ presenti tempi fare una repubblica, più facilità troverebbe negli uomini montanari, dove non è
alcuna civiltà, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la
civiltà è corrotta; e uno scultore trarrà più facilmente una bella statua d’un
marmo rozzo, che d’uno male abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime
cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona
fortuna, e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino
è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è
cagione della rovina d’esse. Perché, dove manca il timore di dio, conviene o
che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che
sopperisca a’difetti della religione. E perché i principi sono di corta vita,
conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d’esso. Donde nasce che
gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo sono poco durabili,
perché la virtù manca con la vita di quello; e rade volte accade che la sia
rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li
rami
l’umana probitate, e questo
vuole
quei che la dà, perché da lui si chiami.
Non è adunque la salute di una repubblica o d’uno regno avere uno
principe che prudentemente governi mentre vive, ma uno che l’ordini in modo che
, morendo, ancora la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si
persuada uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo impossibile
persuaderla ancora agli uomini civili, e che presumono non essere rozzi. Al
popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo; nondimeno da frate Girolamo
Savonarola fu persuaso che parlava
con Dio. Io non voglio giudicare s’egli era vero o no, perché d’uno tanto uomo
se ne debbe parlare con riverenza; m,a io dico bene che infiniti lo credevano,
senza avere visto cosa nessuna straordinaria da farlo loro credere, perché la
vita sua, la dottrina, e il soggetto che prese, erano sufficienti a fargli
prestare fede. Non sia pertanto nessuno che ci sbigottisca di non potere
conseguire quel che è stato conseguito da altri: perché gli uomini, come nella
prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre con un
medesimo ordine.
Il capitolo
secondo del secondo libro, intitolato: “Con quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come ostinatamente quegli difendevano la
loro libertà”.
Nessuna cosa fe’ più faticoso a’ Romani superare i popoli
d’intorno e parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi
molti popoli avevano alla libertà; la quale tanto ostinatamente difendevano che mai se non da
un’eccessiva virtù sarebbono stati
soggiogati. Perché per molti esempli si conosce a quali pericoli si mettessono
per mantenere o ricupeare quella, quali vendette ei faccessono contro coloro
che l’avessero loro occupata. Conoscesi ancora, nella lezione delle istorie,
quali danni i popoli e le città ricevino per la servitù. E dove in questi tempi
ci è solo una provincia la quale si possa dire che abbia in sé città libere,
ne’ tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi
come, in quelli tempi de’ quali noi parliamo al presente, in Italia, dall’alpi
che dividono ora la Toscana da Lombardia infino alla punta d’Italia, erano
tutti i popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani, i Sanniti e molti altri popoli
che in quel resto d’Italia abitavano. Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re
fuora di quegli che regnorono in Roma e Porsenna re di
Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse non ne parla la istoria. Ma si
vede bene come in quegli tempi che i Romani andarono a Campo Veio, la Toscana
era libera: e tanto si godeva della usa libertà e tanto odiava il nome del
principe che, avendo fatto i veienti per loro difensione un re in veio e
domandando aiuto a’ Toscani contro a’ Romani, quegli, dopo molte consulte
fatte, deliberarono di non dare aiuto a’ Veienti infino a tanto che
vivessono sotto il re, giudicando non essere bene difendere la patria di coloro
che l’avevano di già sottomessa ad altrui. E facil cosa è conoscere donde nasca
ne’ popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per esperienza le
cittadi non avere mai ampliato né di dominio né di ricchezza se non mentre sono
state in libertà. E veramente meravigliosa cosa è a considerare a quanta
grandezza venne Roma poi che la si liberò da’ suoi Re. La ragione è facile a
intendere, perché non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa
grandi le città. E senza dubbio questo bene comune non è osservato se non nelle
republiche; perché tutto quello che fa
a proposito suo si esequisce e, quantunque e’ torni in danno di questo o di
quello privato, e’ sono tanti quegli
per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla disposizione
di quegli che ne fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno
principe, dove il più delle volte quello che fa per lui offende la città, e
quello che fa per la città offende lui.
Dimodoché, subito che nasce una tirannide
sopra uni vivere libero, il manco male che ne risulti a quelle città è non
andare più innanzi, né crescere più in potenza o in ricchezze; ma il
più delle volte, anzi sempre, interviene loro che le tornano indietro. E se la
sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso, il quale per animo e per
virtù d’arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a lui proprio; perché e’ non può onorare nessuno di quegli cittadini, che siano
valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di
loro. Non può ancora le città che esso acquista sottometterle o farle
tributarie a quella città di che egli è tiranno, perché il farla potente non fa
per lui, ma per lui fa tenere lo Stato disgiunto e che
ciascuna terra e ciascuna provincia
riconosca lui. Talché de’ suoi acquisti solo egli ne profitta e non la
sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre
ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De tirannide.Non è maraviglia
adunque che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni e
ammassino il vivere libero, e che il nome della libertà fosse tanto stimato da
loro. Come intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone Siracusano, fu morto in
Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito che non
era molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare e pigliare l’armi
contro gli ucciditori di quello; ma, come ei sentì che in Siracusa si gridva
libertà, allettato da quel nome si quietò tutto, pose giù l’ira contro
a’tirannicidi e pensò come in quella città si potessi ordinare uno vivere
libero. Non è maraviglia ancora che e popoli faccino vendette istraordinarie
contro a quegli che gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stati assai
esempli, de’ quali ne intendo referire solo uno seguito in Corcira, città di
Grecia, ne’ tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa quella
provincia in due parti delle quali l’una seguitava gli Ateniesi l’altra
gli Spartani, ne nasceva che di molte
città che erano infra loro divise l’una parte seguiva l’amicizia di Sparta,
l’altra di Atene; ed essendo occorso che nella detta città prevalessono i
nobili e togliessono la libertà al popolo, i popolari per mezzo degli
Ateniesi ripresero le forze e, posto le mani addosso a tutta la Nobiltà, gli
rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevano a otto o
dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio diverse parti, e quegli
con molti crudeli esempli facevano morire. Di che sendosi quelli che restavano
accorti, dliberarono, in quanto era a loro possibile, fuggire quella morte
ignominiosa; e armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare, al entrata della
prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo romore fatto uno
concorso, scoperse la parte superiore di quel luogo, e quegli con quelle rovine
soffocò.
Seguirono ancora in detta provincia
molti altri simili casi orrendi e notabili; talché si vede essere vero che con
maggiore impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta che quella che ti è
voluta tòrre.
Pensando dunque donde possa nascere
che in quegli tempi antichi i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo
nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti, la quale
credo che sia la diversità della educazione nostra
dall’antica, fondata dalla diversità della religione nostra dalla antica.
Perché, avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa
stimare meno l’onore del mondo; onde i Gentili, stimando assai e avendo posto in quello il sommo bene, erano
nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare da molte loro
constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrifici loro all’umiltà
de’ nostri, dove è qualche pompa più delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui
non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiungeva
l’azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi
moltitudine d’animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini
simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non
uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di
republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e
contemplativi che gli attivi. Ha di poi disposto il sommo bene nella umiltà,
abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella
grandezza dell’animo, nella fortezza del corpo e in tutte le altre
cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la regione nostra richiede che tu
abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto patire più che a fare una cosa
forte. Questo modo di vedere, adunque, pare che abbia renduto il mondo debole e
datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono
maneggiare, veggendo come l’università degli uomini per andare in paradiso
pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si
sia effemminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce più, senza dubbio, dalla
viltà degli uomini che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio e
non secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci permette la esaltazione
e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiamo e onoriamo
e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere.
Fanno, adunque, queste educazioni e
sì false interpretazioni che nel mondo non si vede tante republiche quante si vede anticamente; ne per consequente si
vede ne’ popoli tanto amore alla libertà quanto allora. Ancora che io creda più
tosto essere cagione di questo, che lo Imperio romano con le sue arme e sua
grandezza spense tutte le repubbliche e tutti e viveri civili. E benché poi
tale Imperio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere
insieme né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello
Imperio. Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni minima parte
del mondo trovarono una congiura di repubbliche aramtissime e ostinatissime
alla difesa della libertà loro. Il che mostra che
il Popolo romano sanza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe
potute spiegare.
E per darne esempio di qualche,
membro voglio mi basti lo esempio de’ Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che
fussero sì potenti e l’arme loro sì valide che potessono infino al Tempo di
Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a’Romani ( che fu uno spazio di
quarantasei anni, dopo tante rotte, rovine di terre e tante strage ricevute nel
paese loro; massime veduto ora quel paese, dove eravo tente cittadi e tanti
uomini, essere quasi che disabitato, e allora vi era tanto ordine e tanta forza ch’egli era
insuperabile, se da una virtù romana non fosse stata
assaltato.
E facil cosa è considerare donde
nasceva quello ordine e donde proceda questo disordine; perché tutto viene dal
vivere libero allora, e ora dal vivere servo. Perché tutte le terre e le
provincie che vivono libere, in ogni parte (come di sopra dissi) fanno profitti
grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e connubii più
liberi, più desiderabili dagli uomini, perché ciascuno procrea volentieri
quegli figliuoli che crede potere nutrire,non dubitando che il patrimonio gli
sia tolto, e ch’ei conosce non solamente ch’e’ nascono liberi e non schiavi, ma
ch’ei possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le
ricchezze moltiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura e
quelle che vengono dalle arti; perché ciascuno volentieri multipla in quella
cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere.
Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a’privati e publici comodi, e l’uno
e l’altro viene maravigliosamente a crescere.
Il contrario di tutte queste cose
segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene,
quanto più è dura la servitù. E di tutte le servitù dure quella è durissima che
ti sottomette a una repubblica: l’una, perché la è più durabile e manco si sperare di
uscirne; l’altra, perché il fine della repubblica è snervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri
corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando quel principe non
sia qualche principe barbaro, distruttore de’ paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono i principi
orientali. Ma, se egli ha in sé ordini umani e ordinari, il più delle volte ama
le città sue suggette equalmente, e a loro lascia l’arti tutte e quasi tutti
gli ordini antichi. Talché, se non lo possono crescere come libere, elle non
rovinano anche come schiave; intendendosi della servitù in quale vengono le città servendo a un forestiero, perché di quelle
d’uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà adunque tutto quello
che si è detto, non si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi,
e della debolezza in che e’ vennono poi,
servendo; e Tito Livio ne fa fede in più
luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e’ mostra che, sendo i Sanniti
oppressi da una legione di romani che era in Nola, mandarono oratori ad
Annibale a pregarlo che gli soccorressi; i quali nel parlare loro dissono che
avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro
soldati e’ propri loro capitani, e molte volte avevano sostenuto dua eserciti
consolari e dua consoli; e che allora a tanta bassezza erano venuti che non si
potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era in Nola.
Il capitolo ventisettesimo
del terzo libro, intitolato “ Come e’ si ha a unire una città divisa, e come e’
non è vera quella opinione che, a tenere le città, bisogni tenerle divise”.
Per lo esemplo de’ Consoli romani
che riconciliarono insieme gli Ardeati,
si nota il modo come si debbe comporre una città divisa: il quale non è altro,
né altrimenti si debbe dimenticare, che ammazzare i capi de’ tumulti. Perché
gli è necessario pigliare uno de’ tre modi: o ammazzargli, come feciono
costoro; o rimuovergli della città; o fare loro pace insieme sotto oblighi di
non si offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è più dannoso, meno certo e
più inutile. Perché gli è impossibile, dove sia corso assai sangue o altre
simili ingiurie, che una pace fatta per forza duri, riveggendosi ogni dì insieme in viso;
ed è difficile che si astenghino dallo ingiuriare l’uno l’altro, potendo
nascere infra loro ogni dì per la conversazione nuove cagioni di querele.
Sopra
che non si può dare migliore esemplo che la città di Pistoia. Era divisa quella città (come è ancora), quindici anni sono,
in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era in sull’armi e oggi le ha posate. E dopo molte
dispute infra loro, vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la
roba e a ogni altro termine di nimico. E i Fiorentini, che gli avevano a comporre, sempre vi usarono quel terzo modo
e sempre ne nacque maggiori tumulti e maggiori scandoli; tanto che, stracchi,
e’ si venne al secondo modo, di rimuovere i capi delle parti, de’ quali messono
in prigione, alcuni altri confinarorno in vari luoghi, tanto che l’accordo
potette stare, ed è stato infino a oggi. Ma senza dubbio più sicuro saria stato
il primo. Ma perché simili esecuzioni hanno il grande e il generoso, una
repubblica debole non le sa fare,
ed ènne tanto discosto che a fatica la si conduce al rimedio secondo. E questi
sono di quegli errori che lo dissi, nel principio, che fanno i principi de’
nostri tempi, che hanno a giudicare le cose grandi; perché dovrebbono volere
udire come si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente
simili casi. Ma la debolezza de’ presenti uomini,
causata dalla debole educazione loro e
dalla poca notizia delle cose, fa che si giudicano i giudicii antichi parte
inumani, parte impossibili. E hanno certe loro moderne opinioni discosto al
tutto dal vero; come è quella che dicevano e savi della nostra città un tempo
fa; che bisognava tenere Pistoia con le parti
e Pisa con le fortezze: e non si
avveggono quanto l’una e l’altra di queste due cose è inutile.
Io
voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a lungo; e voglio
discorrere la inutilità che si trae dal tenere le terre, che tu hai in governo,
divise. In prima egli è impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle parti
amiche, o principe o repubblica che le governi. Perché
dalla natura è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e
piacergli più questa che quella. Talché, avendo una parte di quella terra male
contenta, fa che la prima guerra che viene, te la perdi; perché gli è
impossibile guardare una città che abbia nimici fuori e dentro. Se la è una
repubblica che la governi, non ci è il più bel modo, a fare cattivi i tuoi
cittadini e a fare dividere la tua città, che avere in governo una città
divisa; perché ciascuna parte cerca di avere favori e ciascuna si fa amici con
varie corruttele; talché ne nasce due grandissimi inconvenienti: l’uno, che tu
non ti gli fai mai amici, per non potergli governare bene, variando il governo
spesso ora con l’uno ora con l’altro omore; l’altro, che tale studio di
parte divide di necessità la tua
repubblica. E il Biondo, parlando de’ Fiorentini e de’ Pistoleri, ne fa
fede dicendo: ‹‹Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia, divisono se medesimi››. Pertanto si può facilmente
considerare il male che da questa divisione nasca.
Nel
1502, quando si perdé Arezzo e tutto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci
dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un monsignor di Lant, mandato dal re di Francia a fare
ristituire ai Fiorentini tutte quelle terre
perdute; e trovando Lant in ogni castello uomini che nel vicitarlo dicevano che
erano della parte di Marzocco, biasimò assai questa divisione, dicendo che, se
in Francia uno di quegli sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe
gastigato, perché tale voce non significherebbe altro se non che in quella
terra fusse gente inimica del re; e quel re vuole che le terre tutte sieno sue
amiche, unite e senza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni diverse
dalla verità, nascono dalla debolezza di chi è signore; i
quali veggendo di non poter tenere gli stati con forza e con virtù, si voltono a simili industrie; le quali qualche volta ne’
tempi quieti giovano qualche cosa, ma, come e’ vengono le avversità e i tempi
forti, le mostrano la fallacia loro.
Il capitolo trentesimo
del terzo libro, intitolato: “A uno cittadino che voglia nella sua republica
fare di sua autorità alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l’invidia: e come, venendo il nimico, si ha a
ordinare la difesa d’una città.”
Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto
nuovo deletto per venire a’ danni di Roma, e come Latini e
gli Ernici, stati per lo addietro amici del Popolo romano, si erano accostati
con i Volsci perpetui inimici di Roma, giudicò questa guerra essere pericolosa.
E trovandosi Cammillo tribuno di podesta consolare, pensò che si potesse fare
senza creare il Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma
dello imperio. Il che detti tribuni fecero volontariamente, << nec quicaquam (
dice Tito Livio) de maiestate sua
dectractum credebant, quod maiestati eius cocessissent>>. Onde Cammillo,
presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrivesse tre eserciti. Del
primo volle essere capo lui, per ire contro a’Toscani.
Del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse propinquo a Roma
per ostare ai Latini e agli Ernici se si movessono. Al terzo esercito prepose
Lucio Quinzio, il quale scrisse per tenere guardata la città e difese le porte
e la curia in oni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò che Orazio, uno
de’ suoi collegi, provedesse l’armi e
il frumento e l’altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose
Cornelio, ancora suo collega, al Senato e al publico consiglio, aciocché
potesse consigliare le azioni che giornalmente si avevano a fare ed esequire;
in modo furono quegli tribuni in quelli tempi per la salute della patria
disposti a comandare e a ubbidire. Notasi per questo quello che faccia uno uomo
buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e’ possa fare alla
sua patria, quando mediante la sua bontà e virtù egli ha spenta la invidia, la quale è molte
volte cagione che gli uomini non
possono operare bene, non permttendo detta invidia che gli abbino quella
autorità la quale è necessaria avere
nelle cose d’importanza. Spegnesi questa invidia in due modi: o per
qualche accidente forte e difficile, dove ciascuno, veggendosi perire, posposta
ogni ambizione, corre volontariamente a ubbidire a colui che crede che con la
virtù lo possa liberare; come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé
tanti saggi di uomo eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, e
avendo amministrato sempre quel grado a utile publico e non a propria utilità,
aveva fatto che gli uomini non temevano della grandezza sua; e per essere tanto
grande e tanto riputato, non stimavano cosa vergognosa essere inferiore a lui
(e però dice Tito Livio saviamente quelle parole: << Nec quicquam>> etc. ). In un
altro modo si spegne l’invidia, quando o per violenza o per ordine naturale
muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel venire a qualche riputazione
e a qualche grandezza; i quali, veggendoti riputano più di loro, è impossibile
che che mai acquieschino e stieno pazienti.
E quando e’ sono uomini che siano usi
a vivere in una città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in loro alcuna bontà, è
impossibile che per accidente alcuno mai si ridìchino, e per ottenere la voglia
loro e satisfare alla loro perversità d’animo, sarebbero contenti vedere la
rovina della loro patria.
A vincere questa invidia non ci è altro
rimedio che la morte di coloro che l’hanno; e quando la fortuna è tanto
propizia a quell’uomo virtuoso ch’e’ si muoiano ordinariamente, diventa sanza
scandalo glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e’ può mostrare la sua
virtù. Ma quando e’ non abbi questa ventura gli conviene
pensare per ogni via a tòrsegli dinanzi; e prima ch’e’ facci cosa alcuna, gli
bisogna tenere modi che vinca questa difficoltà. E chi legge la Bibbia
sensatamente vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che
i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali non
mossi da altro che dalla invidia si opponevano a’ disegni suoi. Questa necessità
conosceva benissimo Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L’uno non potette vincerla per non avere autorità a
poterlo fare (che fu il frate) e per non essere inteso bene da coloro che lo
seguitavano, che ne arebbero avuto autorità. Non pertanto per lui non rimase, e
le sue prediche sono piene di accuse de’ savi del mondo e d’invettive contro a
loro: perché chiamava così quegli invidi e quegli che si opponevano agli ordini
suoi. Quell’altro credeva,
col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno, spegnere
questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con tanti nuovi favori che gli
arrecava el modo del suo procedere, che credeva potere superare quelli tanti
che per invidia se gli opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto; e
non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna
varia e la malignità non truova dono che la plachi: tanto che l’uno e l’altro
di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata da non avere saputo o
potuto vincere questa invidia.
L’altro notabile è l’ordine che
Cammillo dette dentro e fuori per la salute di Roma. E veramente non
sanza cagione gli istorici buoni, come è questo nostro, mettono particularmente
e distintamente certi casi, acciocché i posteri imparino come gli abbino in
simili accidenti a difendersi. E debbesi in questo testo notare che non è la
più pericolosa né la più inutile difesa che quella che si fa tumultuariamente e
sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che Camillo fece scrivere per lasciarlo in Roma a guardia
della città: perché molti arebbero giudicato e giudicherebbero questa parte
superflua, sendo quel popolo per l’ordinario armato e bellicoso, e per
questo che non bisognasse di scriverlo altrimenti ma bastasse farlo armare
quando il bisogno venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso,
la giudica altrimenti, perché non permette mai che una moltitudine pigli l’arme
se non con certo ordine e certo modo. E però in su questo esemplo uno che sia
preposto a guardia d’una città debba fuggire come uno scoglio il fare armare
gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti quegli che
voglia si armino, chi gli abbino a ubbidire, dove a convenire, dove a andare, e
quegli che non sono scritti comandare che stieno ciascuno alle case sue a
guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine in una città assaltata,
facilmente si potranno difendere; chi farà altrimenti si potranno difendere;
chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e non si difenderà.
Il capitolo
trentunesimo del terzo libro, intitolato “Le republiche forti e gli uomini
eccellenti ritengono in ogni fortuna il medesimo
animo e la loro medesima dignità.”.
Intra le altre magnifiche cose che ‘l
nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per mostrare come debbe essere fatto
un uomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: << Nec mihi dictatura animos fecit, nec exilium ademit>>. Per le quali si vede come gli uomini grandi sono
sempre in ogni fortuna quelli
medesimi; e se la varia, ora con esaltarli ora con l’opprimerli, quegli non
variano, ma tengono sempre lo animo fermo e in tale modo congiunto con il modo
del vivere loro che facilmente si conosce, per ciascuno, la fortuna non avere
potenza sopra di loro.
Altrimenti si governano gli uomini deboli: perché invaniscono e inebriano nella
buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che non
conobbono mai. Donde nasce che diventano insopportabili e odiosi a tutti coloro
che gli hanno intorno. Da che poi depende la subita variazione della sorte, al
quale come veggono in viso, caggiono subito nell’altro difetto, e diventano
vili e abietti. Di qui nasce che i principi così fatti pensano nelle avversità
più a fuggirsi che a difendersi, come quelli che per avere male usata la buona
fortuna, sono a ogni difesa impreparati.
Questa virtù e questo vizio che io dico trovarsi in un
uomo solo, si truova ancora in una republica; e in esemplo ci sono i Romani e i Veneziani. Quelli primi, nessuna
cattiva sorte gli fece mai diventare
abietti, né nessuna buona fortuna gli fece mai essere insolenti, come si vide
manifestamente dopo la rotta ch’egli ebbero a Canne, e dopo la vittoria ch’egli
ebbero contro ad Antioco o a Cartagine a chiedere pace, ma, lasciate stare
tutte queste cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra, armando per
carestia di uomini i vecchi e i servi loro. La quale cosa conosciuta da Annone
cartaginese, come di sopra si disse, mostrò a quel senato quanto poco conto si
aveva a tenere della rotta di Canne. E così si vide come i tempi difficili non
gli sbigottivano né gli rendevano umili. Dall’altra parte i tempi prosperi non
gli facevano insolenti; perché, mandando Antioco oratori a Scipione a chiedere
accordo avanti che fussono venuti alla giornata e ch’egli avesse perduto,
Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano che si ritirasse
dentro alla Soria e il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo romano. Il
quale accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata e perdendola, rimandò
imbasciadori a Scipione, con commissione che pigliassero tutte quelle
condizioni erano date loro dal vincitore; alli quali non propose altri patti
che quegli si avesse offerti innanzi che vincesse, soggiungnendo queste parole:
<<Quod Romani si
vincuntur, non minuuntur animis; nec, si vincunt, insolescere solent>> .
Al contrario appunto di questo si è
veduto fare ai Veneziani, i quali nella buona fortuna, parendo loro
aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta
insolenza che chiamavano il re di Francia
figliuolo di San Marco;
non stimavano la Chiesa; non capivano in
modo alcuno in Italia; ed eronsi presupposti nello animo di avere a fare una
buona monarchia simile alla romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbaandonò e
ch’egli ebbono una mezza rotta a Vailà dal re di Francia, perderono non
solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa
e al re di Spagna per viltà e abiezione d’animo; e in tanto inivilirono che
mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi tributari, scrissono al papa
lettere piene di viltà e di sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale
infelicità pervennero in quattro giorni e dopo una mezza rotta; perché, avendo
combattuto il loro esercito nel rititrarsi,
venne a combattere ed essere oppresso circa la metà; in modo che l’uno
de’ Provveditori che si salvò arrivò a Verona con più di venticinquemila
soldati intr’a piè e a cavallo. Talmenteché se a Vinegia e negli ordini loro fosse stata alcuna
qualità di virtù facilmente si potevano rifare e rimostrare di nuovo il viso
alla fortuna, ed essere a tempo o a vincere o a perdere più gloriosamente o ad
avere accordo più onorevole. Ma la viltà dello animo loro, causata dalla
qualità de’ loro ordini non buoni nelle cose della guerra, gli fece a un tratto
perdere lo Stato e l’animo. E sempre interverrà così a
qualunque si governa come loro. Perché questo diventare insolente nella buona
fortuna e abietto nella cattiva, nasce dal modo del procedere tuo e dalla educazione nella quale ti se’ nutrito; la quale quando è
debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata altrimenti, ti rende anche
d’una altra sorte e, faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa meno
rallegrare del bene e meno rattristare
del male. E quello che si dice d’uno solo si dice di molti che vivono una
repubblica medesima, i quali si fanno di quella
perfezione che ha il modo del vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto
come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia, e come dove non è
questa non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi
pare superfluo riplicarlo, perché ad ogni punto, nel leggere questa istoria, si
vede apparire questa necessità, e si vede come la milizia non puote essere
buona se la non è esercitata, e come la non si può esercitare se la non è
composta di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in guerra né si può starvi,
però conviene poterla esercitare a
tempo di pace, e con altri che con sudditi
non si può fare questo esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo
andato, come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai Toscani, e avendo i suoi soldati veduto la grandezza dello
esercito de’ nemici si erano tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non potere sostenere l’impeto
di quegli. E pervenendo questa mala disposizione del campo dagli orecchi di
Cammillo, si mostrò fuora e, amdamdo parlando per il campo a questi e quelli
soldati, trasse loro del capo questa opinione e nello ultimo sanza ordinare
altrimenti il campo disse: ‹‹Quod quisque didicit, aut consuevit, faciet››.
E, chi considera bene questo termine e
le parole disse loro per inanimirli a ire contro a’ nimici, considerasi come e’
non si poteva né dire né fare fare alcuna di quelle cose a uno esercito che
prima non fosse stato ordinato ed esercitato e in pace e in guerra; perché di
quegli soldati che non hanno imparato a fare alcuna cosa che stia bene: e se
gli comandasse un nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno capitano essere, mentre si
fa la giornata, in ogni parte, s’è non ha prima in ogni parte ordinato di
potere avere uomini che abbino lo spirito suo e bene gli ordini e modi del
procedere suo, conviene di necessità ch’è rovini. Se adunque una città sarà
armata e ordinata come Roma, e che ogni dì ai suoi cittadini, e in particolare e
in publico, tocchi a fare esperienza e della virtù loro e della
potenza della fortuna, interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei
fiano del medesimo animo e manterranno la medesima loro dignità. Ma quando e’
fiano disarmati, e che si appoggeranno solo agl’impeti della fortuna e non alla
propria virtù, varieranno col variare di quella, e daranno sempre di loro
esempio tale che hanno dato i Viniziani.
Il capitolo
quarantatreesimo del terzo libro, intitolato: “Che gli uomini che nascono in
una provincia osservino per tutti i tempi quasi quella medesima natura.”
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a
caso né immeritatamente, che chi vuole vedere, quello che ha a essere,
consideri quello che è stato: perché tutte le cose del mondo in ogni tempo
hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo
quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni,
conviene di necessità che le sortiscano il medesimo effetto. Vero è che le sono
le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in quella più che in
questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo
del vivere loro.
Fa ancora facilità il conoscere le cose
future per le passate, vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o
continovamente avara o continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile
vizio o virtù. E chi leggerà le
cose passate della nostra città di Firenze, e considerarà
quelle ancora che sono ne’ prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e
franciosi pieni di avarizia, si superbia, di ferocità e d’infedelità; perché
tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la nostra città.
E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo
VIII, ed egli prometteva rendere le fortezze di Pisa e non mai le rendé. In che quel re mostrò la
poca fede e l’assai avarizia sua. Ma lasciam andare queste cose fresche.
Ciascuno può avere inteso quello che seguì nella guerra che fece il popolo fiorentino contro a’ Visconti duchi di
Milano; ed essendo Firenze privo degli altri ispedienti, pensò di condurre lo
imperatore d’Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse lo imperatore
venire con assai genti e fare quella guerra contro a’ Visconti difendere
Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono centomila ducati per levarsi e
centomila poi ch’ei fosse in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini,
e pagatigli i primi danari e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona se ne
tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere restato da quegli che
non avevano osservate le convenzioni erano fra loro. In modo che se Firenze non
fosse stata o costretta dalla necessità o vinta dalla passione, e avesse letti
e conosciuti gli antichi costumi de’ barbari, non sarebbe stata né questa né
molte altre volte ingannata da loro; essendo loro stati sempre a un modo e
avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede
ch’ei fecero anticamente a’ Toscani;
i quali essendo oppressi dai Romani,
per essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti, e veggendo mediante
le loro forze non potere resistere allo impeto di quegli, convengono con i
Franciosi che di qua all’Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di
danari, e ch’e’ fussono obligati congiungere gli eserciti con loro e andare contro
ai Romani; donde ne seguì che i Franciosi, presi idanari, non vollono dipoi
pigliare l’armi per loro, dicendo avergli avuti non per fare guerra con i loro
nimici, ma perché si astenessimo di predare il paese toscano. E così i popoli
toscani per l’avarizia e poca fede de’ Franciosi risono a un tratto privi de’
loro danari e degli aiuti che gli speravano da quegli. Talché si vede, per
questo esempio de’ Toscani antichi e per quello de’ Fiorentini, i Franciosi
avere usati i medesimi termini, e per questo facilmente si può conietturare
quanto i principi si possono fidare di loro.
Il capitolo
quarantaseiesimo del terzo libro, intitolato: “ Donde nasce che una famiglia in una città tiene un tempo
i medesimi costumi”.
E’ pare che non solamente l’una città
dall’altra abbia certi modi e instituti diversi, e procrei uomini o più duri o
più effeminati, ma nella medesima città si veda tale differenza essere nelle
famiglie l’una dell’altra. Il che si riscontra essere vero in ogni città e nella
città di Roma se ne leggono assai esempli; perché e’ si
vede i Manlii essere stati duri ostinati, i Publicoli
uomini benigni e amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nemici della plebe, e così molte
altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall’altre. La
quale cosa non può nascere solamente dal sangue, perché conviene ch’e’ varii,
mediante la diversità dei matrimonii; ma è necessario che venga dalla diversa educazione che ha l’una famiglia dall’altra. Perché
gl’importa assai che un giovanetto da’ teneri anni cominci a sentire dire bene
o male d’una cosa, perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da
quella poi regoli il modo di procedere in tutti tempi della sua vita. E se
questo non fosse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la
medesima voglia e fossono stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito
Livio in molti di loro; e per ultimo, essendo uno
di loro fatto Censore, e avendo il suo collega alla fine de’ diciotto mesi, come ne disponeva la legge, disposto il
magistrato, Appio non volle diporre, dicendo che lo poteva
tenere cinque anni, secondo la prima legge ordinata da’ Censori. E benché sopra
questo se ne facessero assi concioni e generassissene assai tumulti non
pertanto ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla volontà del Popolo
e del maggiore parte del Senato. E chi leggerà la
orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte le
insolenzie appiane, e tutte le bontà e umanità usate da infiniti cittadini per
ubbidire alle leggi e agli auspici della loro patria.
Da
Dell’arte della guerra.[24]
[…] Cosimo. Da che si conoscono
quelli che sono o non sono sufficienti a militare?
Fabrizio. Io voglio parlare del modo dello eleggere
una ordinanza nuova per farne di poi
uno esercito; perché parte si viene ancora a ragionare della elezione che si
facesse ad instaurazione d’una ordinanza vecchia. Dico, pertanto, che la bontà
d’uno che tu hai ad eleggere per soldato, si conosce o per esperienza mediante
qualche sua egregia opera, o per coniettura.
La pruova di virtù non si può trovare negli uomini che si
trovare negli uomini che si eleggono di nuovo e che mai più non sono stati
eletti; e di questi se ne truova o pochi o niuno nell’ordinanze che di nuovo
s’ordinano. È necessario pertanto, mancando questa esperienza, ricorrere alla
coniettura; la quale si trae dagli anni, dall’arte e dalla presenza. Di quelle
due prime si è ragionato; resta parlare della terza; e però dico come alcuni
hanno voluto che il soldato sia grande, tra i quali fu Pirro; alcuni altri gli
hanno eletti dalla gagliardia solo di corpo e d’animo si coniettura dalla composizione
delle membra e dalla grazia dell’aspetto. E però dicono questi che ne scrivono,
che vuole avere gli occhi vivi e lieti, il collo nervoso, il petto largo, le
braccia muscolose, le dita lunghe, poco ventre i fianchi rotundi, le gambe e il
piede asciutto; le quali parti sogliono sempre rendere l’uomo agile e forte,
che sono due cose che in uno soldato si cercano sopra tutte l’altre. Debbesi
soprattutto riguardare a’costumi, e che in lui sia
onestà e vergogna, altrimenti si elegge uno instrumento di scandolo e uno
principio di corruzione; perché non sia alcuno che creda che nella educazione disonesta e nell’animo brutto possa capere
alcuna virtù che sia in alcuna parte lodevole. Non mi pare superfluo, anzi
credo che sia necessario, perché voi intendiate meglio l’importanza di questo
deletto, dirvi il modo che i consoli romani nel principio del magistrato loro
osservavano nello eleggere le romane leggi; nel quale deletto, per essere
mescolati quegli si avevano ad eleggere, rispetto alle continue guerre,
d’uomini veterani e nuovi, potevano procedere con la esperienza ne’ vecchi e
con la coniettura ne’ nuovi. E debbesi notare questo: che questi diletti si
fanno, o per usargli allora, o per esercitargli allora ed usargli a tempo. Io
ho parlato e parlerò di tutto quello che si ordina per usarlo a tempo, perché
la intenzione mia è mostrarvi come si possa ordinare uno esercito ne’ paesi
dove non fusse milizia, ne’ quali paesi non si può avere deletti per usargli
allora; ma in quegli donde sia costume trarre eserciti, e per via del principe,
si può bene avergli per allora, come si osservava a Roma e come si osserva oggi tra i Svizzeri. Perché
in questi diletti, se vi sono de’ nuovi, vi sono ancora tanti degli altri
consueti a stare negli ordini militari, che mescolati i nuovi ed i vecchi
insieme, fanno uno corpo unito e buono; nonostante che gli imperadori, poi che
cominciarono a tenere le stazioni de’ soldati ferme, avevano preposto sopra i
militi novelli, i quali chiamavano Tironi, uno maestro ad esercitargli, come si
vede nella vita di Massimino imperadore. La quale cosa, mentre che Roma fu libera, non negli eserciti, ma dentro
nella città era ordinato; ed essendo in quella consueti gli esercizi militari
dove i giovanetti si esercitavano, ne nasceva che, sendo scelti poi per ire in
guerra, erano assuefatti in modo nella finta milizia, che potevano facilmente
adoperarsi nella vera. Ma avendo di poi quegli imperadori spenti questi
esercizi, furono necessitati usare i termini che io v’ho dimostrati. Venendo
pertanto al modo deletto romano, dico, poi che i consoli romani, a’ quali era
imposto il carico della guerra, avevano
preso il magistrato, volendo ordinare i loro eserciti (perché era costume che
qualunque di loro avesse due legioni d’uomini romani, le quali erano il nervo
degli eserciti loro, creavano ventiquattro tribuni militari, e ne proponevano
sei pr ciascuna legione, i quali facevano quello uffizio che fanno oggi quegli
che noi chiamiamo connestabili. Facevano di poi convenire tutti gli uomini
romani idonei a portare armi, e ponevano i tribuni di qualunque legione
separati l’uno dall’altro. Di poi a sorte traevano i tribi, de’ quali si avesse
prima a fare il deletto, e di quello tribo sceglievano quattro de’ migliori,
de’ quali ne era eletto uno da’ tribuni della prima legione; dagli altri tre,
ne era eletto uno da’ tribuni della seconda legione; degli altri due, ne era
eletto uno da’ tribuni della terza; e quell’ultimo toccava alla quarta legione.
Dopo questi quattro se ne scieglieva altri quattro; de’ quali, prima, uno ne
era eletto da’ tribuni della seconda legione;
il secondo da quelli della terza; il terzo da quelli della quarta; il quarto rimaneva alla prima. Di poi se ne
sceglieva altri quattro: il primo sceglieva la terza, il secondo la quarta, il terzo la prima, il quarto restava alla
seconda; e così variava successivamente questo modo dello eleggere, tanto che
la elezione veniva ad essere pari e le
legioni si ragguagliavano. E come di sopra dicemmo, questo deletto si poteva
fare per usarlo allora, perché si faceva d’uomini de’ quali buona parte erano
esperimentati nella vera milizia e tutti, nella finta esercitati; e potevasi
fare questo deletto per coniettura per
esperienza. Ma dove si avesse ad ordinare una milizia di nuovo, e per
questo scerli per a tempo, non si può
fare questo deletto se non per coniettura, la quale si prende dagli anni e
dalla presenza.
|
La vita e le opere di Niccolò
Machiavelli
|
|
Principali
eventi storici
|
1469 |
Il 3 maggio nasce da messer Bernardo e da
Bartolomea de’Nelli, autrice di perdute laudi sacre e rime morali in volgare.
Il padre, dottore in legge e proprietario di un piccolo fondo in Val di Pesa,
appartiene a una antica e illustre famiglia ormai caduta in modesta fortuna. |
|
In Spagna il matrimonio tra Isabella di
Castiglia e Ferdinando, principe ereditario d’Aragona, sancisce l’unione
delle due corone, preludio all’unificazione territoriale. |
1470 |
|
|
Carlo VIII succede a Luigi XI. |
1471 |
|
|
Gli Este diventano duchi di Ferrara per
investitura papale. Andrea Mantenga comincia la decorazione ad
affresco nella Camera degli Sposi del Palazzo Ducale di Mantova. Inizia il pontificato di Sisto IV che morirà
nel 1484. |
1472 |
|
|
Guerra di Firenze contro Volterra. |
1474 |
|
|
Federico da Montefeltro riceve il titolo di
duca di Urbino da papa Sisto IV. |
1475 |
|
|
Venezia perde i suoi possedimenti in Morea. Genova perde le colonie del Mar Nero. |
1476 |
Nei Ricordi del padre Bernardo è annotato che
il 6 maggio Niccolò viene avviato allo studio del latino. |
|
Carlo il Temerario tenta l’invasione della
Svizzera e viene sconfitto a Granson e a Morat. |
1477 |
Prosegue nello studio del latino presso ser
Battista da Poppi. |
|
Battaglia di Nancy: gli svizzeri sconfiggono i
borgognoni. Carlo il Temerario muore a Nancy combattendo
contro gli svizzeri. Si apre un conflitto tra Francia e Impero per la
successione in Borgogna e nei Paesi Basso. |
1478 |
|
|
Congiura dei Pazzi a Firenze: Giuliano de’
Medici è assassinato durante la messa nella cattedrale, mentre Lorenzo riesce
a salvarsi in sacrestia. Sandro Botticelli realizza La Primavera degli
Uffizi di Firenze. 1478-80 Inizia la guerra di Firenze contro papa Sisto
IV e Ferdinando di Napoli che finirà nel 1480 |
1479 |
|
|
Con la pace di Alcoçobes Alfonso V di
Portogallo riconosce Isabella come regina di Castiglia. Ferdinando il Cattolico sale al trono di
Aragona. Unione dei regni di Castiglia e di Aragona. Cristoforo Colombo lascia definitivamente
Genova per stabilirsi in Spagna. |
1480 |
Machiavelli comincia lo studio dell’abaco. |
|
Termina la guerra di Firenze contro papa Sisto
IV e Ferdinando di Napoli. Assedio ottomano di Rodi. Massacro turco di Otranto. Ludovico il Moro diventa reggente di Milano
per il nipote Gian Galeazzo Sforza. |
1481 |
M. studia latino presso ser Paolo da
Ronciglione. Molto probabilmente è in questi anni che scrive alcune
composizioni in versi e una codice che contiene la trascrizione autografa del
De Rerum Natura e dell’Eunucus di Terenzio. |
|
Morte di Maometto II. In Portogallo sale al trono Giovanni II. |
1482 |
|
|
Pace di Arras tra Luigi XI e Massimiliano
d’Austria: la Francia rinuncia alle Fiandre in cambio della Borgogna
francese. Girolamo Savonarola arriva nel convento di San
Marco a Firenze. Muore
Federico da Montefeltro. |
1483 |
|
|
Carlo VIII sale al trono di Francia succedendo
al padre Luigi XI. Torquemada viene incaricato di organizzare
l’Inquisizione spagnola. |
1484 |
|
|
Muore
Sisto IV e inizia il pontificato di Innocenzo VIII |
1488 |
|
|
Bartolomeo Diaz doppia il Capo di Buona
Speranza. |
1489 |
|
|
Venezia acquista l’isola di Cipro da Caterina
Cornaro. Giovanni de’ Medici, figlio tredicenne de
Lorenzo è nominato cardinale Savonarola sfida l’autorità di Lorenzo de’
Medici durante una delle prediche dell’Avvento. |
1492 |
|
|
Colombo scopre il Nuovo Continente. Caduta del regno moro di Granada. Trattato di Étaple tra Enrico VII e Carlo
VIII. Ludovico il Moro stringe una lega difensiva
con Carlo VIII di Francia. Isabella d’Este sposa Federico Gonzaga. Torquemada fa espellere gli Ebrei dalla
Castiglia e dall’Aragona. Morte di Lorenzo il Magnifico. Muore Innocenzo VIII e inizia il pontificato
di Alessandro VI. |
1493 |
|
|
Trattato d Senlis tra Carlo VIII e
Massimiliano d’Austria. Trattato di Barcellona tra
Carlo VIII e Ferdinando il Cattolico. Inizia il secondo viaggio di Colombo e
scoperta di Puerto Rico, Dominica, Antigua, Guadalupa e Giamaica. |
1494 |
|
|
Discesa in Italia di Carlo VIII. Ludovico il Moro riceve l’investitura ducale
dall’imperatore Massimiliano d’Austria. Trattato di Tordesillas. 9 novembre. I fiorentini cacciano Piero de’
Medici, che aveva ceduto a Carlo VIII le fortezze di Sarzana, Pietrasanta e
Pisa. 17
novembre. Carlo VIII entra a Firenze. 23 dicembre. Nuovo ordinamento della
repubblica fiorentina, in armonia con la volontà del Savonarola (Consiglio
maggiore, Consiglio degli Ottanta, Dieci di libertà e di pace, Otto di Balìa) |
1495 |
|
|
Carlo VIII conquista Napoli. Sconfitta francese di Fornovo. Leonardo inizia ad affrescare il Cenacolo nel refettorio della chiesa di
Santa Maria delle Grazie a Milano. |
1497 |
2
dicembre. Machiavelli scrive al Cardinale Giovanni Lopez, vescovo di
Perugina, rivendicando contro la famiglia dei Pazzi, il patronato della Pieve
di Fagna |
|
Giovanni Caboto giunge sulle coste del
Labrador. 13 maggio. Alessandro VI scomunica Girolamo
Savonarola. Vasco de Gama circumnaviga l’Africa; l’anno
seguente raggiunge Calcutta. |
1498 |
9
marzo. Machiavelli. scrive una lettera all’ambasciatore fiorentino a Roma
Ricciardo Becchi in cui traccia un profilo di Savonarola. 15 giugno. Entra nell’amministrazione
fiorentina come segretario della seconda cancelleria. 14 luglio. Viene incaricato
di svolgere le sue funzioni anche agli ordini dei Dieci di Balìa, la
magistratura che segue la politica estera. |
|
Cesare Borgia è nominato duca di Valentinois. Luigi XII succede a Carlo VIII. Vasco da Gama raggiunge Calicut, in India. Morte di Torquemada. Condanna e esecuzione di Girolamo Savonarola. Inizia il terzo viaggio di
Colombo. |
1499 |
Partecipa alle operazioni militari contro Pisa
e scrive un Discorso sopra le cose di Pisa, di cui resta un frammento. |
|
Primo viaggio di Amerigo Vespucci nel Nuovo
Continente. Luigi XII di Francia, sretta alleanza con
Venezia, entra in Italia e occupa Genova e Milano. |
1500 |
Luglio. Inizia la missione in Francia: viene a
contatto con i protagonisti della politica francese, da Luigi XII al
cardinale Gorge d’Amboise. |
|
Francia e Spagna stipulano il trattato di
Barcellona che prevede la spartizione dell’Italia meridionale. Pedro Alvarez Cabral sbarca in Brasile. |
1501 |
Al ritorno in Firenze Machiavelli scrive il Discursus
de pace inter imperatorem et regem. Sposa Marietta Corsini, dalla quale avrà sette
figli. Missione a Pistoia. Legazione a Siena, presso Pandolfo Petrucci. |
|
Cesare Borgia crea un proprio stato nelle
Romagne. Ludovico
il Moro respinge gli eserciti mercenari francesi sul Ticino. Seconda
spedizione di Vespucci nel Nuovo Continente. |
1502 |
Nuova missione a Pistoia, Machiavelli: nel
marzo scrive il De rebus pistoriensibus. Legazione a Bologna presso Giovanni
Bentivoglio. Giugno. Prima legazione presso Cesare Borgia
assieme al vescovo Francesco Sederini. Ottobre. Seconda legazione presso Cesare
Borgia. |
|
Amerigo Vespucci esplora le
coste meridionali. |
1503 |
Aprile. Nuova missione presso Pandolfo
Petrucci a Siena. Machiavelli viene inviato a Roma per seguire
il conclave dal quale uscirà eletto Giulio II. Incontro con Cesare Borgia,
ormai in rovina. In quest’anno scrive le Parole da dirle sopra
la provisione del danaro, il De
natura gallorum, il Modo di trattare i popoli della Valdichiana
ribellati. |
|
Muore Alessandro VI e crolla il dominio di
Cesare Borgia. Leonardo dipinge La Gioconda. Pontificato di Pio III. Pontificato di Giulio II. Viene fondata a Siviglia la Casa de
Contratacíon. Disfida di Barletta nell’ambito della guerra
franco-spagnola per il Napoletano. |
1504 |
Secondo viaggio in Francia. Scrive il Decennale in versi. |
|
Cesare Borgia è imprigionato da papa Giulio
II. Col trattato di Lione Luigi XII riconosce alla
Spagna il possesso del Napoletano. Morte di Isabella di Castiglia |
1505 |
Varia attività diplomatica in Italia.
Legazione presso Giampaolo Baglioni a Perugia; presso Francesco Gonzaga,
marchese di Mantova; per la terza volta, presso Pandolfo Petrucci. È
impegnato nelle operazioni militari per la riconquista di Pisa. |
|
|
1506 |
Marzo. Sempre più convinto e impegnato per
l’istituzione di una milizia cittadina, scrive la Cagione dell’ordinanza. In estate svolge un’importante missione al
seguito di Giulio II durante la quale scrive i cosiddetti Ghiribizzi al
Soderino. Novembre. Scrive la Provisione dell’ordinanza. |
|
|
1507 |
Gennaio. Viene nominato cancelliere dai nove
della milizia. Agosto. Missione a Siena. Legazione presso Massimiliano I, in Tirolo. |
|
Giorgione iniziare a dipingere La Tempesta. |
1508 |
Missione al campo sotto Pisa. |
|
Si costituisce la Lega di Cambrai, che
raccoglie tutti i nemici di Venezia. A Siviglia viene costituita la Casa de
Contrataciòn. |
1509 |
Gennaio. Di nuovo al campo sotto Pisa. Marzo. Commissaria presso il signore di
Piombino. Marzo-aprile. Scrive i Provvedimenti per la
riconquista di Pisa. Agosto-settembre. Discorso sopra le cose di
Magna e sopra l’imperatore. Novembre. Legazione a Mantova, per affari con
l’imperatore. |
|
Sebastiano Caboto raggiunge la Baia di Hudson. |
1510 |
Giugno. Legazione alla corte di Francia. Ottobre. Scrive il Ritracto di cose di
Francia. Ottobre-novembre. Scrive il Discorso sulla
milizia a cavallo. |
|
Gli spagnoli iniziano l’occupazione di Cuba. I
portoghesi occupano Goa, sulla costa occidentale dell’India. |
1511 |
Marzo. Scrive l’Ordinanza de’cavalli,
per organizzare una nuova milizia a cavallo. Maggio. È mandato in missione a Siena da
Pandolfo Petrucci. Scrive il Ghiribizzo circa Iacopo Savello, per
proporre questi come capitano della fanteria. Legazione presso Luciano
Grimaldi, signore di Monaco. Settembre. Legazione alla corte di Francia. |
|
Giulio II, in lotta contro i francesi,
promuove la costituzione della Lega Santa. |
1512 |
Settembre-ottobre. Machiavelli rielabora il Rictracto
delle cose della Magna. 9 Novembre. Scrive Ai Palleschi. 10 Novembre. La nuova signoria medicea lo
condanna al confino e al pagamento di mille fiorini. |
|
I francesi abbandonano l’Italia, nonostante la
vittoria di Ravenna. Il Sultano Selim I conquista l’Egitto,
l’Arabia e la Siria. |
1513 |
Febbraio. Machiavelli è arrestato e sottoposto
a tortura, perché sospetto di essere implicato nella congiura antimedicea di
Boscoli e Capponi. Liberato dal carcere dopo l’elezione di Leone XIII è
confinato all’Albergaccio, presso San Casciano Val di Pesa. Marzo.-agosto. Intenso carteggio di
Machiavelli con Francesco Vettori. Presumibile inizio della stesura dei Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio. Dicembre. Scrive a Francesco Vettori di aver
«composto un opuscolo De Principatibus». |
|
Vasco Nunes de Balboa giunge nell’Oceano
Pacifico. Viene eletto pontefice Leone X. |
1514 |
Machiavelli ritorna a Firenze. |
|
|
1515 |
Verso la metà di quest’anno inizia la
frequentazione di Machiavelli degli Orti Oricellari. Compone e rielabora il Tradimento
del duca Valentino. |
|
Francesco I, re di Francia riconquista la
Lombardia. L’anno successivo la pace di Noyon attribuisce alla Spagna il
Regno di Napoli e alla Francia il Ducato di Milano. |
1516 |
Ottobre. Machiavelli è a Livorno per incarico
di Paolo Vettori. |
|
|
1517 |
Dicembre. In una lettera all’Alamanni parla di
essere intento alla composizione del poemetto in terza rima: L’Asino |
|
Martin Lutero affigge sulla porta di
Wittenberg le sue 95 tesi. |
1518 |
Aprile. Viene incaricato da
mercanti fiorentini di una missione Genova. Compone Belfagor Arcidiavolo e la prima
traduzione dell’Andria di Terenzio. |
|
|
1519 |
Machiavelli comincia a
scrivere il Dell’arte
della guerra. |
|
Alla morte di Massimiliano d’Asburgo sale sul
trono imperiale Carlo I di Spagna: prenderà il nome di Carlo V. Ferdinando Magellano inizia la
circumnavigazione del globo |
1520 |
Febbraio. Presumibilmente
per la prima volta viene rappresentata la Mandragola. Marzo. Machiavelli viene
ricevuto dal cardinale Giulio de’ Medici. Luglio. Machiavelli è
inviato a Lucca dai creditori di Michele Guinigi, fra cui era Jacopo
Salviati, cognato di Leone X. Agosto. Scrive la Vita di Castruccio
Castracani. Dicembre. Compone il Discursus
fiorentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices. |
|
Leone X condanna le tesi di Lutero con la
bolla Exsurge Domine. |
1521 |
Aprile. Machiavelli riceve
dall’ex gonfaloniere Piero Sederini la proposta di entrare al servizio del
condottiero Prospero Colonna. Machiavelli
non accetta. Maggio. È mandato a Carpi
dagli Otto di Pratica, in occasione del capitolo generale dei frati minori.
Durante questa missione stringe amicizia con Francesco Guicciardini,
governatore di Modena. Agosto. Esce presso Giunta
il Dell’arte
della guerra. |
|
Lutero si pone sotto la protezione del duca di
Sassonia. Scoppia la guerra tra Carlo V e Francesco I. I turchi conquistano Belgrado. H. Cortés in Messico distrugge la capitale
azteca. |
1522 |
|
|
In Germania si estende la rivolta dei
cavalieri. Cortés viene nominato governatore della Nuova
Spagna. |
1524 |
Marzo. Il filosofo Agostino
Nifo, professore a Pisa, pubblica De regnandi peritia,
plagio del Principe. |
|
Francesco I riconquista Milano. Nella Germania centromeridionale scoppia una grande rivolta contadina. In Svizzera Zwingli riforma la Chiesa di
Zurigo. |
1525 |
Viene rappresentata per la
prima volta la Clizia. Maggio. Machiavelli va a
Roma per presentare a Clemente VII le Istorie fiorentine. Giugno. Machiavelli viene
mandato dal papa presso Francesco Guicciardini. Agosto. I consoli dell’Arte
della lana lo mandano a Venezia. |
|
Termina la guerra tra Francia e Impero. In Germania viene schiacciata la rivolta dei
contadini. |
1526 |
Aprile. Machiavelli è nominato provveditore e cancelliere dei
Procuratori delle mura di Firenze. Settembre. Machiavelli è
mandato presso Francesco Guicciardini, nel campo della Lega Santa. Novembre. È inviato dagli
Otto di pratica presso Francesco Guicciardini a Modena. |
|
Viene stipulata a Cognac una lega
anti-imperiale, cui aderisce anche il pontefice Clemente VII. La battaglia di Mohàcs consegna l’Ungheria
all’Impero ottomano. |
1527 |
Nuova missione presso il
Guicciardini, a Parma. 21 giugno. Machiavelli muore
e viene sepolto il 22 in Santa Croce. |
|
Roma viene presa e saccheggiata da gli
imperiali. L’Italia ritorna sotto il dominio di Carlo V. |
1528 |
Si ha una nuova stampa del
Dell’arte della guerra. |
|
|
1531 |
Sia presso i Giunti che
presso Antonio Blado viene data alle stampe una nuova edizione dei Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio. |
|
I principi protestanti tedeschi costituiscono
la Lega di Smalcalda. Ad Anversa viene aperta la nuova Borsa |
Indicazioni
bibliografiche.
Abbandonando ogni pretesa di completezza assoluta, si è
pensato di fornire una bibliografia strumentale, consistente in indicazioni di
tipo editoriale e storico editoriale in base alle quali poter intraprendere
ulteriori ricerche su quest’autore. Innanzitutto, si sono riportate le più
importanti edizioni delle opere di Machiavelli dal settecento ad oggi, sillogi
e singole, e le più significative edizioni delle opere in circolazione in
lingua inglese, francese tedesca e spagnola. In seguito si è pensato di
segnalare le più rilevanti e accessibili bibliografie, tra cui alcune in
internet. Degli studi critici, oltre a quelli citati nel testo di questa
ricerca, si sono menzionati i più importanti del novecento.
I.
Bibliografie.
Bibliografia machiavelliana 1969-1989 (Opere non letterarie), sito Internet:
http://www.unil.ch/ital/scripts/macquery.pl
Bibliografia sulla ‹‹ragion di Stato›› dal 1860 a oggi, sito
Internet:
http://www.unina.it/difil/borrelli/I-93-3.html
Bertelli S.-Innocenti P.,
Bibliografia machiavelliana, Verona 1979.
Cochrane E.W.,
Machiavelli: 1940-1960, in ‹‹Journal of Modern
History››, XXXI ( 1961), pp. 113-36.
Cutinelli Rendina E.,
Rassegna di studi sulle opere politiche e storiche
di Niccolò Machiavelli (1969-1992), in ‹‹Lettere Italiane››,
XXXV (1994), pp. 123-72.
Fido F.,
Machiavelli, Palermo 19752 .
Gerber
A.,
Niccolò Machiavelli: die Handschriften, Ausgaben
und Übersetzungen seiner Werke im 16. und 17. Jahrhundert, Gotha 1912-1913. (ris. anastatica, Torino 1962).
Gilbert F.,
Machiavelli in Modern Historical
Scholarship,
in AA.VV., Machiavelli nel quinto
centenario della nascita, Bologna 1973, pp.155-71.
Goffis
G.F.,
Niccolò Machiavelli, in I classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni,
Firenze 1967, vol.I, pp.409-472.
Gli Studi machiavelliani nell’ultimo ventennio, in ‹‹Cultura scuola››, XI (1970), pp.24-55.
Norsa A.,
Il
principio della forza nel
pensiero politico di Niccolò Machiavelli, seguito da un contributo bibliografico,
Milano 1936.
II.
Edizioni moderne delle opere. [in ordine cronologico]
Edizioni complessive.
Opere,
Firenze 1782-1783 (6 voll.)
Opere, Livorno 1796-1799 (in 8 voll.)
Opere,
a cura di L. Passerini e G. Milanesi, Firenze-Roma 1873-1877 (in 6 voll.)
Le opere maggiori, a cura di P.Carli, Firenze 1923.
Tutte le opere storiche e letterarie, a cura di G. Mazzoni e M. Casella, Firenze 1929.
Opere, a cura di A. Panella, Milano-Roma 1938-1939 (in 2 voll).
Tutte le opere, a cura di F. Flora-C. Cordié, Milano 1949-1960 (in 2 voll).
Opere,
a cura di S. Bertelli e F. Gaeta, con intr. di G. Procacci, Milano 1960-1969 (in 9 voll.).
Opere politiche, a cura di M. Puppo, Firenze 1969.
Opere, a cura di S. Bertelli, Milano-verona 1969-182 (in 10 voll.).
Opere, a cura di E.
Raimondi, Milano 1969.
Tutte le opere, a cura di M.Martelli, Firenze 1971.
Le grandi opere politiche, a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, Torino
1992-1993 (in 2 voll.)
Opere, a cura di C. Vivanti
, Torino 1997.
Tutte le opere storiche, politiche e letterarie, a cura A. Capata, intr. di
N. Borsellino, Roma 1998.
Edizioni di singole opere.(oltre alle sillogi già menzionate).
Il Principe, edizione critica a cura di L. A. Burd,
Oxford 1891.
Il Principe, a cura di G. Lisio, Firenze 1900.
Il Principe, a cura di F. Chabod, Torino 1924.
Il Principe, a cura di L. Russo, Firenze 1931.
Il Principe, a cura di F. Alderisio, Napoli 19402.
Il Principe, a cura di D. Mattalia, Milano-Messina 19512.
Il Principe, a cura di G. Sasso, Firenze 19642.
Il Principe, a cura di V. De Caprariis, Bari 1962.
Il Principe, a cura di E. N. Girardi, Brescia 1970.
Il Principe, a cura di G. F. Berardi, intr. di G. Procacci, Roma 1984.
Il Principe, edizione critica a cura di G. Inglese, Torino 1995.
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a
cura di C. Vivanti 1983.
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
intr. di G. Sasso, premessa e note di G.
Inglese, Milano 1984.
Arte della guerra, a cura di P. Pieri, Roma 1930.
Istorie fiorentine, Libri I-III, a cura di V. Fiorini, Firenze1894.
Istorie fiorentine, edizione critica a cura di P. Carli, Firenze 1927 (2 voll.).
Due nuove frammenti degli abbozzi autografi delle ‹‹Istorie
fiorentine›› di Niccolò Machiavelli, a cura di E. Levi, in ‹‹La
Bibliofilia››, LXIX (1967), pp. 309-323.
Ancora due frammenti degli abbozzi autografi delle ‹‹Istorie
fiorentine››,
a cura di J. J. Marchand, LXXII (1970), pp. 75-89.
Istorie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, Torino 19913.
Lettere, a cura di E.Alvisi, Firenze 1883.
Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961.
Tutte le Lettere, a cura di F. Gaeta, Torino 1984.
Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, Milano 1989.
Dieci lettere private, a cura di G. Bardazzi, Roma 1992.
Machiavelli-Guicciardini, carteggio 1521-1527, a cura di M.Fusetti, Losanna 1997.
L’esperienza di Francia e della Magna, a cura di M. L. Lenzi, Firenze 1974.
Legazioni. Commissarie. Scritti di Governo [1498-1505], a cura di F. Chiappelli e J. J Marchand, Roma- Bari 1971- 85
Vita
di Castruccio Castracani, edizione critica a cura di R. Brakkee, con commento di P. Trovato, Napoli 1986.
La
vita di Castruccio Castracani e altri scritti, a cura di G. Inglese, Milano 1991.
I
‹‹Ghiribizzi d’ordinanza›› del Machiavelli, a cura
di J.J. Marchand, in ‹‹La Bibliofilia››, LXXIII (1971), pp. 135-50.
Una
‹‹protestatio de iustitia›› del Machiavelli: l’‹‹Allocuzione ad un
magistrato››, a cura di J.J. Marchand, in ‹‹La Bibliofilia››, LXXXII
(1980), pp. 81-82.
I
Ghiribizzi al Soderini, a cura di R. Ridolfi e P. Ghiglieri, in ‹‹La Bibliofilia››, LXXXII (1970), pp. 53-74.
Discursus florentinarum rerum post mortem
iunioris Laurentii Medices, a cura e
con intr. di G. Inglese, in ‹‹La Cultura ››, XXIII
(1985) pp. 203-228.
Traduzioni
in lingua inglese.
The
Discourses, a cura e con intr. di L. J. Walzer, London 1950 ( nuova
edizione con premessa e appendici a cura di C. H. Clough, ivi 1975, in 2
voll.).
Florentine
Histories, a cura di L. Banfield e H. C. Mansifield, Princeton 1992.
The
Prince, a cura di Q. Skinner e R. Price, Cambridge 1994.
Discourses on Livy, a cura di H. C. Mansifield e N. Tarcov, Chicago 1997.
Traduzioni
in lingua francese.
Oeuvres complètes, trad. Di E. Barincou, intr. di J. Giono, Paris 1978.
Discours sur la première décade de Tite Livie, trad. di T. Guirau 1985.
Le
Prince, a cura di Ch. Bec e M. M Fragonard, Paris 1990.
Le
Prince, a cura e con intr.
di C. Roux Lanier, Paris 1994.
Oeuvres, a cura
di Ch. Bec, Paris 1996.
Traduzioni in lingua tedesca.
Gesammelte Schriften, a cura di J. Ziegler e F. N. Baur, München 1925 (in 5
voll.).
Gedanken über Politik und Staatsführung, a cura e con intr. di R. Zorn, Stuttgart 1970.
Der Fürst,
trad. di R. Zorn, Stuttgart 1970.
Der Fürst,
trad. di e. Merian-Genast, pref. Di H. Freyer, Stuttgart 1978.
Geschichte von Florenz, trad. di A. von Reumont, postf. di K. Kluxen, Zürich 1986.
Traduzioni
in lingua spagnola.
Escritos
politicos breves, a cura e con intr. di M. T. Navarro Salazar, Madrid 1991.
El
Principe, a cura di Angeles Cardona, Barcelona 1974.
El
Principe, trad. di H. Puigdomenech, intr. di A. Martinez Aracon,
Barcelona 1993.
III. Studi critici.
AA.VV.
Studies on Machiavelli, a cura di M. P. Gilmore,
Firenze 1972.-
Badaloni Nicola,
Natura e Società in Machiavelli, in ‹‹Studi Storici››, X
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Noterelle machiavelliane. Un codice di Lucrezio e di
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Borsellino Nino,
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Cantimori Delio,
Niccolò Machiavelli: il politico e lo storico, in Storia
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L’Educazione in Europa (1400-1600). Problemi e
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Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e
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Lo zodiaco della vita. La polemica
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paradigmi della storia: il metodo del Machiavelli, Manduria 1981.
Indici
dei nomi e delle tematiche.
A
Appii; 31; 34; 85. Vedi
Appio; 31; 85
azione; 33; 35; 38;
45; 64
B
Bertelli; 105; 107;
111
C
Camillo; 75
Cancellieri; 68
Chabod; 14; 107; 111
Chiappelli; 19; 108;
111
Chiesa; 79; 112
Comenio; 15
conflitto
conflittualità; 18
confronto; 21
coniettura;
87
corpo; 19; 21; 64;
67; 87
costumi; 31; 32; 82;
85; 88
critica; 13; 106;
107; 108
Croce; 14; 111
Cutinelli Rendina;
105; 112
D
De Mauro; 16; 112
debolezza;
50; 67; 69; 70
diavolo; 13
disunione; 19; 52
E
educabilità; 38; 44
educazione; 15; 16;
17; 31; 32; 34; 35; 43; 44; 45; 46; 49; 50; 53; 55; 63; 69; 74; 80; 82; 85; 88
F
Fabrizio; 87
fine; 13; 19; 31; 45;
53; 57; 67; 85
Fiorentini; 68; 70;
83
Firenze; 11; 13; 19;
58; 74; 82; 106; 107; 108; 111; 113; 114; 116
fortuna; 13; 52; 57;
74; 77; 78; 81; 112
forza; 20; 43; 46;
66; 68; 71; 106
G
Garin; 13; 14; 15;
112
Gentili;
64
Gilbert; 106; 112
Grendler; 15; 113
Guarino da Verona;
15
Guerra; 16; 45
Guicciardini; 38;
108; 112; 115
I
imitazione; 44; 50
Inglese; 11; 49; 107;
108; 109; 113
invidia; 72; 73; 74
L
legge; 31; 53; 74; 85
Lemay; 114
libertà; 52; 54; 60;
62; 63; 65
Livio; 11; 16; 25;
31; 49; 50; 65; 67; 72; 85; 107; 108; 113
M
Machiavelli; 7; 11;
13; 14; 15; 16; 17; 18; 19; 20; 32; 33; 34; 35; 37; 38; 43; 44; 45; 46; 49; 87;
105; 106; 108; 109; 111; 112; 113; 114; 115; 116
malattia; 19
Manlii; 31; 33; 85
materia; 32; 43
mezzi; 13; 20
Micheli; 20; 113
morale; 43
N
naturalismo; 19
Nitti; 13; 114
Nobili; 52
Numa;
55; 56; 57
O
organismo; 43
ottimati; 19
P
Panciatichi; 68
Pisa; 14; 69; 82;
112
Pistoia; 68; 70
Plebe; 52
politica; 14; 19;
20; 37; 45; 46; 111; 112; 113; 116
Pomponazzi; 114
popolari; 19; 63
popolo; 20; 31; 33;
45; 52; 55; 57; 58; 63; 75; 83; 85
potenza; 50; 55; 61;
67; 77; 81; 83
Procacci; 13; 107;
114
Publio Sempronio; 32; 86
R
religione; 43; 55;
56; 57; 64; 112
religione cristiana;
43
repubblica; 19; 21;
52; 54; 55; 57; 58; 62; 66; 69; 80; 116
Ridolfi; 109; 114
Roma; 13; 15; 16; 31;
33; 52; 55; 56; 60; 72; 75; 81; 85; 88; 106; 107; 108; 111; 112; 113; 114; 115;
116
Romani;
36; 55; 60; 65; 67; 78; 83
Romolo;
55; 56
S
San
Marco; 79
sanità; 19
Sanniti; 60; 65; 67
sano; 19
Sasso; 11; 14; 19;
49; 107; 108; 114
Savonarola; 58
Senato; 32; 52; 53; 55; 56; 72; 86
Skinner; 13; 109;
115
società; 20; 114
Soderini; 74; 109
Stato; 45; 62; 79;
105; 111; 113; 116
storia; 13; 14; 19;
33; 38; 44; 106; 112; 113; 116
T
Tenenti; 115
Tommasini; 13; 115
Toscani;
60; 72; 80; 83
Tribuni; 52; 54; 72
V
Valentino; 70
Veienti;
61
Verde; 115
Vinegia;
79
virtù;
45; 49; 52; 58; 60; 62; 65; 66; 71; 73; 74; 77; 79; 81; 82; 87
Vitelli; 70
Vittorino da Feltre;
15
Z
Zanzi; 19; 116
[1] Cfr. Procacci Giuliano, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995.
[2] Perlomeno è quanto testimonia Quentin
Skinner, in
Machiavelli,
Oxford, 1981, (trad.
it. Milano 1985, p. 5).
[3] Nel Principe, op. cit., p. 119 si
trovano le seguenti espressione “…e nelle azioni di tutti li uomini, e massime
de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine […] Facci dunque uno
principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno
iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati.”
[4] Si allude a due studi tutt’oggi
importanti: F.Nitti, Machiavelli nella vita e nelle dottrine, Napoli 1876, ristampa anastatica,
Bologna, 1991; e O.Tommasini, La
vita e gli scritti nella loro relazione col machiavellismo, Roma-Torino, 1883-1911, ristampa anastatica
del vol.I Bologna, 1994.
[5] Il testo di questa conferenza è stato
ripubblicato con il titolo Aspetti del
pensiero di Machiavelli, in Eugenio Garin, Dal
Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche. Pisa, 1970, pp. 42-77.
[6] Ivi,
p. 43.
[7] L’allusione è a Benedetto Croce e
a Federico Chabod, che, nonostante gli importanti studi
dedicati a quest’autore, si guardarono sempre dal considerarlo un filosofo. Del
Croce si ricorda il saggio Machiavelli e Vico, contenuto in Benedetto Croce Etica e politica, Bari, 1931, pp. 250-256; dello Chabod
la raccolta di saggi Federico Chabod, Scritti
su Machiavelli, Torino, 1964.
[8] Ci si riferisce a Gennaro Sasso, Studi
su Machiavelli, Napoli, 1967, primo importante studio
di questo interprete su Niccolò Machiavelli, al quale si sono succeduti
innumerevoli altri che si riporteranno di volta in volta e nella bibliografia.
[9] Su queste figure ed, in generale,
sull’educazione nel Rinascimento si
veda Eugenio Garin, L’Educazione
in Europa (1400-1600). Problemi e programmi, Bari, 1957 e, dello stesso
autore, l’antologia l’Educazione
Umanistica in Italia, Roma-Bari, 1975. Sull’aspetto amministrativo
dell’organizzazione scolastica cfr.: Paul Grendler, La scuola nel
Rinascimento italiano, Roma-Bari, 1991.
[10] Da tener presente la definizione di questo termine da parte del Grande Dizionario Storico del Battaglia: “Educazione: sf. Processo di svolgimento di tutte le attività spirituali, in cui l’uomo sviluppa e affina la personalità, il carattere, le capacità, nelle diverse età e condizioni individuali e sociali, trasformandosi incessantemente: nell’età giovanile avviene specialmente attraverso la famiglia e la scuola (ed è questa l’accezione più comune del termina), mentre sull’adulto agiscono piuttosto le istituzioni religiose, politiche e culturali ( e in senso ristretto, indica a volte la formazione intellettuale e cultural, cioè propriamente, l’istruzione, a volte la formazione mondana, l’affinamento del comportamento esteriore).
[11] Per la nozione di significato-uso in
linguistica, si fa riferimento a Tullio De Mauro, Introduzione
alla semantica, Roma-Bari, 1965.
[12] Discorsi,
op. cit., p. 78.
[13]
Per il naturalismo di Machiavelli cfr. Gennaro Sasso Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero
politico, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 557-560; Nicola Badaloni, Natura e Società in Machiavelli, in
‹‹Studi Storici››, X (1969), pp. 675-708
[14] Per la lingua del Machiavelli: Fredi Chiappelli: Studi
sul linguaggio del Machiavelli, Firenze, 1952; e dello
stesso autore Nuovi studi sul linguaggio
del Machiavelli, Firenze, 1969.
[15] Discorsi,
op. cit., p. 301.
[16] Per i rapporti tra metodologia
storiografica, presupposti scientifici e la medicina rinascimentale in
Machiavelli, cfr.: Luigi Zanzi, I
segni della natura e i paradigmi della storia:
il metodo del Machiavelli,
Manduria, 1981. Più in generale, si confronti Gianni Micheli, Medicina
e scienze naturali nei secoli XVI e XVII, in Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, Annali
3, Storia d’Italia, Torino 19,
pp. 345-380.
[17] Discorsi,
op. cit., p. 569.
[18] l’uso del termine ‘materia’ in Machiavelli è
di pretto conio aristotelico ed è legato concettualmente, in termine oppositivi,
a quello di ‘forma’. Infatti, oltre all’uso di questo termine nel senso di
‘argomento’, ‘disciplina’, ‘questione’, è soprattutto nell’accezione di ciò che
è indeterminato e si dispone ad una determinazione da parte del potere politico
(forma) che lo imprime. Nei Discorsi,
quest’uso si riscontra nei seguenti
luoghi testuali: Discorsi, op. cit,
pp. 103-106; pp. 106-108; pp. 137-138; pp. 492-495; pp. 502-506.
[19] Discorsi,
op. cit., p. 569.
[20] Tutte
le opere, op. cit., pp. 1203-1204.
[21] Tutte le opere, op. cit., p. 985.
[22] Principe,
in Tutte le opere, op. cit., p.
257.
[23] Capitoli estratti da N. Machiavelli,
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, intr. di G. Sasso, premessa e note di G.Inglese, Milano 1984.
[24] N. Machiavelli, Tutte
le opere, op. cit., p. 314-315.