L’educazione e la critica. A proposito della recente Storia degli intellettuali in Italia di
Ugo Dotti*
di Roberto Sandrucci
1. Storiografia come ‘pedagogia’
Nel gennaio scorso è stato
pubblicato dagli Editori Riuniti l’ultimo dei tre volumi che compongono la Storia degli intellettuali in Italia di
Ugo Dotti: Temi e ideologie dagli
illuministi a Gramsci. I precedenti, Crisi
e liberazione da Machiavelli a Galilei e Idee, mentalità e conflitti da Dante alla crisi dell’umanesimo,
erano usciti rispettivamente nell’aprile 1997 e nell’ottobre ’98. Il lettore
che l’acquisti si troverà tra le mani un’opera chiara e nobile ma, per i motivi
che diremo, crediamo, non del tutto feconda.
Dotti vi si congeda con la
sveltezza di chi si affranca da un obbligo gravosissimo – riassumere più di
settecento anni di storia in meno di mille pagine - ma con la fatica tutta di
chi nella costrizione, e qui va intesa proprio in senso fisico, ha rinunciato a
più di qualcosa; e verrebbe da dire: al sangue e alla carne di quegli stessi
intellettuali di cui vuole rendere conto, sospesi (come ad ogni passo l’autore
non manca di rammentare) tra inevitabili «accenni» e «somme» e «abbozzi» ed
altre simili essenzialità.
Così, nonostante la bontà delle pagine, espressa nel rigore erudito dell’esposizione, resta al lettore che sia un poco addentro alla materia o in quello che era partito per addentrarcisi, un senso di insufficienza: una sorta di appetito non saziato o saziato troppo presto o, ancora, saziato ma in assenza di piatti particolarmente gustosi; la sensazione, ovvero, di essersi imbattuto più che in una ‘storia’ e, quand’anche, in una propedeutica alla storia dei nostri intellettuali, in quella che si suole definire con tono di rimprovero, una ‘pedagogia’.
Il motore, già di per sé evidente nei primi due volumi, diviene esplicito proprio nel terzo, dove, nell’Epilogo, l’autore dà sfogo alla sua amarezza ed esprime tutto il suo sdegno nei riguardi di un mondo che vede velocemente involvere, che va rinnegando le conquiste più alte della morale e della ragione, e al quale sente in definitiva di non appartenere più.
Alle considerazioni che, già a metà degli anni Sessanta con triste lungimiranza, portava Eugenio Garin a denuncia di un impoverimento, quando non di un degrado, della cultura e della società italiane esposte a sempre nuove seduzioni qualunquistiche, si richiama Dotti che a quelle fa seguire alcuni accorati interrogativi:
[…] cosa si dovrà dire oggi nell’età […] del
‘postmoderno’, ossia in un’epoca in cui si assiste al trionfo di un mondo
effimero e senza centro, il cosiddetto mondo della tecnologia del consumismo e
dell’industria culturale costantemente alimentato dal nuovo capitalismo; un
mondo in cui, nonché dell’interpretazione della storia come lotta di classe, è
della stessa storia che ci si fa beffe e di ogni suo possibile significato
oltre che di ogni suo reale antagonismo? Un’epoca nella quale, con singolare e ben funesta
leggerezza, si dà mano alla ‘revisione’ (in realtà alla distruzione) dei valori
e degli istituti che erano nati con la Resistenza e che avevano rappresentato,
per le masse lavoratrici, una faticosa conquista grazie anche al prestigio di
quel partito comunista che aveva avuto in Gramsci il suo fondatore e
ispiratore? Un’epoca insomma in cui si irride a quella ragione che, connessa
alla generosità, è la sola forza capace di persuadere gli uomini della
meschinità degli egoismi individuali e della verità e giustezza del diritto
altrui anche quando va contro i nostri interessi o i nostri desideri? (III, pp.
318 e 319)
Possiamo ridefinire le questioni in una sola e più
concreta: cosa ha il dovere di dire, oggi – nel tempo che segna la fine dei
grandi sistemi etici e delle grandi ‘narrazioni’ – colui il quale, nella
funzione riconosciuta e oggettiva di intellettuale, di quella storia, di fronte
alle nuove generazioni, si fa interprete e garante?
2. Il passato tra
storiografia e educazione
«Riscuotere il lettore» (III, p. 314) dall’apatia mentale in cui versa («dal sonno in cui un po’ tutti siamo sommersi», come viene concesso con fastidiosa complicità); ovvero, in senso generale e con forza: «risvegliare lo spirito critico» ch’è anche «autentico spirito morale» (I, p. xv) - rappresenta il traguardo, in relazione al raggiungimento del quale, Dotti consegna al pubblico il contributo di una storia degli intellettuali con dichiarate finalità educative. Una storia in cui è tracciata – diremmo, con determinismo positivista - la linea che, in questo mondo, separa i buoni dai cattivi: quelli che sotto la bandiera della critica hanno concorso al progresso, e quelli che di tale progresso hanno rappresentato la beffa o la costante e deliberata demolizione.
Ebbene, Dotti ci racconta dei primi, e forse lo fa egregiamente, ma tralascia del tutto i secondi; preferendo ai panni ingrati dello storico nell’esercizio del ricercare e del domandare, la veste più comoda del pedagogo nell’ufficio sistematico del rispondere.
Che si possano condividere e il pessimismo di Dotti e il sogno di quel «ritorno a Gramsci» (III, p. 319) già auspicato da Garin, dunque, non deve punto distrarci: ciò che qui è in discussione non tocca le ragioni profonde dell’opera, né il giudizio politico immediato che vi è consegnato; riguarda piuttosto la strategia messa in atto – utilizzare gli intellettuali come argomenti di un contraddittorio sulla società attuale - al fine di avvicinare (per quella parte, piccola o grande, che può spettare a un libro) quel traguardo di rinnovamento e di rinascita nazionale.
Ci sono almeno due luoghi dell’opera che ci fanno riflettere in tal senso: là dove, nella Premessa ancora al terzo tomo (‘700-prima metà del ‘900), si dice che è «quasi la seconda parte dell’opera complessiva», che «ha un andamento in parte diverso da quello dei due primi volumi», che, per quest’ultimo, si è «ritenuto opportuno procedere per scorci, o meglio, per problemi o nessi di problemi» (III, p. ix); e là dove, nell’Avvertenza al secondo, l’autore dichiara che la prima parte dell’opera (I e II volume: la storia da Dante a Galilei) è da lui considerata «più rilevante» (p. ix).
Non si tratta di ‘affinità poetica’, né propriamente di una ‘corrispondenza’ di interessi di studioso. E’ vero, invece, che per Dotti la storia dei nostri intellettuali per il periodo che va dal Duecento al Seicento – da Dante a Galilei, appunto – a dispetto di quella del tardo ‘800 e della prima metà del ‘900, si presta meglio per «il fine principale» dell’opera intera, che, come è affermato in una pagina, è «quello […] di trasmettere un messaggio ideale e civile fondato sull’ethos storico e politico» (II, p. xi).
La ricetta, allora, suona più o meno così: «[…] in una società [quale la nostra attuale] che […] sembra […] venirsi frantumando al suo interno negli scontri degli opposti egoismi e che, a quanto pare, ha ripudiato con fastidio il ‘senso della storia’» (III, p. 314), Dante è un esempio più formativo, poniamo, di D’Annunzio; e Guicciardini è più istruttivo - funziona meglio - di Gozzano: non, si badi, il discorso critico su Dante o Guicciardini, ma questi e quello di per sé; non il percorso di ricerca su questi autori ma l’insegnamento che ne discende autonomamente; non il procedimento scientifico – filologico e storiografico – attraverso il quale il lettore possa identificare questi autori in quanto intellettuali del loro tempo, ma direttamente la trasmissione della sostanza del loro discorso.
E difatti, «in tanta varietà di questioni, conflitti, problemi, contraddizioni, mentalità» - ovvero, negli slanci e nelle angustie dei secoli scorsi – Dotti rinviene «un’analogia con molte delle situazioni oggi in discussione e in dibattito» (I, p. xv), tale da giustificare un’attualizzazione del passato, investibile – da consumarsi – come pura materia di edificazione.
E’ l’Italia del primato in Europa, l’Italia all’avanguardia nelle arti e nelle scienze, quella che, non a caso, interessa Dotti.
Ed ecco lo «sforzo ininterrotto e tenace» (I, p. xv) di una galleria di illustrissimi - che sono i Petrarca, gli Ariosto, o i Machiavelli – incarnazioni, quasi, di quello spirito critico e di quella forza morale che porta loro a combattere (ognuno secondo i modi propri e del tempo ma, sotto il cielo, unitamente), nel «grande conflitto tra trascendenza e immanenza» (II, p. xxxiv), tra tendenza reazionaria e tendenza progressista, contro «la follia del mondo» (I, p. 253), fino al margine, si direbbe, di quella «morte liberatrice dagli affanni di questa vita e […] smascheratrice delle ipocrisie umane» (I, p. 249) di cui Dotti parla a proposito del Defunctus e del Momus dell’Alberti.
[…] da Dante a Galileo Galilei – leggiamo -, dal
punto di vista del pensiero e delle sue traduzioni artistiche e culturali,
l’Italia è costantemente stata all’avanguardia, tanto che per il periodo
suddetto si è potuto coniare, in opposizione all’età medievale, il termine di
Rinascita. Va da sé che, con tale termine, si suole indicare comunemente il
Rinascimento italiano. Resta comunque incontestabile che, sul piano delle idee
e della loro diffusione, i nomi di Francesco Petrarca, di Niccolò Machiavelli o
di Galileo Galilei furono avvertiti, e tali sono rimasti, come quelli di veri e
propri capiscuola. […] Si potrebbe perfino sostenere che alla grande fioritura
della Grecia classica e della Roma classica fosse succeduta quella dell’“Italia
classica” (II, p. 243).
3. La storia
‘ammaestrata’
«Essere e dover essere» (I, p. xiv), «vita pulsionale e disciplina intellettuale» (I, p. xv), odio e pietas, ignoranza e sapientia – sulla dialettica di queste coppie di opposti Dotti costruisce la sua Storia degli intellettuali, dove al primato collettivo dell’Italia umanista e poi rinascimentale su di un’Europa presa nelle spire tenebrose del basso medioevo, corrisponde, a livello del singolo individuo, un «primato della coscienza» (I, p.129) sugli istinti – della ragione, ancora, sull’«aggressività dell’irrazionale» (I, p. xv).
Il «valore etico supremo» (II, p.71) è sperimentato, allora, attraverso la categoria del ‘classico’[1], in funzione anti-metafisica: come realizzazione piena dell’uomo che pratica il «dominio […] sulla propria vita».
Così nel capitolo dedicato a Petrarca - La cultura dell’animo (I, pp. 112-128) – di questo cammino doloroso, fatto di pochi passi in avanti e di lunghe marce a ritroso, si trova la traccia, là dove si legge:
Non c’è dubbio che la Grecia antica abbia dato all’umanità le prime professioni di fede nell’onnipotenza dell’uomo nella vita umana, e basterà qui ricordarci, oltre che delle figure omeriche, della leggenda di Prometeo nella sua versione eschilea o del famoso canto corale sull’uomo “padrone della scienza e del pensiero” quale si legge nell’Antigone di Sofocle. Nella grande lotta tra chiarificazione immanente e oscuramento trascendente della vita umana, la saggezza eroica della polis greca non poté continuare a lungo a fungere da guida ideale e morale, e già con Virgilio e Orazio, almeno in certa misura, l’attività prometeica dell’uomo cominciò a essere intesa come un delitto contro gli dei. Attraverso poi l’ellenismo, e quindi lo gnosticismo, tale linea portò alla mortificazione cristiana dell’uomo di fronte all’onnipotente trascendenza del Dio uno e trino e questa tendenza, come è noto, culminò in quella che si suole chiamare, un poco genericamente, età medievale, ma neppur essa poteva continuare a dominare incontrastata. Il desiderio dell’uomo di realizzare appieno le proprie personali virtualità, di estrinsecare e compiere se stesso in un’attività autonoma, per quanto assolutamente legittimo, si trovò tuttavia a contrastare con le tendenze religiose dell’ideologia dominante, il cristianesimo, che non soltanto s’opponeva a quel desiderio, ma ne condannava la presunzione come ‘splendido vizio’ (I, pp. 112 e 113).
E’ «il tragico destino dell’uomo» il vero protagonista della Storia di Dotti; e gli intellettuali ne sono le comparse; tale la sorte di un’umanità «la cui vocazione dovrebbe essere il razionale virtuoso ma il cui agire nella vita civile sembra condannato al fariseismo, alla menzogna e alla violenza dell’ipocrisia» (I, p. 251). Di questa «maledizione che […] l’uomo ha scagliato contro se stesso» (I, p. 51) – di questo vero e proprio peccato originale – troviamo testimonianza anche ne l’Orlando furioso:
Corrotto il mondo e corrotta la corte, specchio vivo del mondo; ottusi gli ingegni o in balìa del vizio […]. Che ne consegue? Una sola cosa: che la storia dell’uomo su questa terra è soltanto la storia dell’ipocrisia e della menzogna interessata. Neppure il poeta, per quanto altissimo, si sottrae a questa sorta di condanna universale (I, p. 312).
La storia tutta ne è intessuta:
la storia ci mostra il lento ma progressivo
elaborarsi della ragione attraverso il tempo (o le sue ricadute nell’errore
della superstizione); ci mostra come entra nella corrente temporale e come vi
riveli la sempre maggiore purezza e perfezione della sua forma (o torni a ottenebrarsi
sotto il peso del pervertimento delle opinioni) (III, p. 14).
La redenzione – va da sé - passa attraverso il pensiero critico, ch’è «coscienza storica», ovvero per tramite della cultura ogni qual volta questa operi nella direzione della «smitizzazione» di quella stessa storia di cui è informata, quale inestimabile prodotto della
[…] tenace, costante, inesorabile demolizione di
tutte le sue stoltezze e di tutti i suoi pregiudizi; [e dell’] altrettanto
tenace, costante e fiduciosa speranza di fare emergere da tante macerie il
volto della ragione riformatrice (III, p. 16).
Dalla dannazione dell’istupidimento e della omologazione, dall’asservimento delle anime e dei cervelli, ci salva l’intellettuale, sul cui compito Dotti torna nei due capitoli sul Manzoni (La critica etico-storica di Manzoni e L’antiromanzo manzoniano: III, pp. 87-146):
Se […] l’irragionevole e l’immorale sono potuti
divenire cosa ragionevole e morale; se nella società umana il vizio ha potuto
trasformarsi in virtù […], allora si fa compito urgente per l’intellettuale
rendere ragione di questo stupefacente pervertimento e, analizzandone le cause,
svelarne il processo. Ed è qui, appunto, che lo scrittore si trasforma in
critico della storia e che la storia, imponendogli la sua presenza, svela
insieme la sua problematica morale (III, p. 92).
4. La critica come
formazione morale
Dotti stesso vuole assolvere l’impegno; ma lo svelamento della problematica morale viene propinata al lettore per mezzo di un ammaestramento in cui il bene e il male, il bello e il brutto, ciò che vale e ciò che vale meno o affatto, sono rivelati in qualità di argomenti evidenti; ovvero in assenza di una cronaca storica che supporti, integri, e relativizzi ciò che si dice ‘storia’ a tutti gli effetti; restituendo ai documenti il loro valore dialettico, in una funzione che non può essere narrativa ma, di necessità, critica. E proprio la ‘critica’ – ce lo ricorda Alberto Asor Rosa - «è parola kantiana, non hegeliana, almeno alle origini»[2]; il che significa che non può esaurirsi in «un atto discorsivo o, se si vuole, retorico, o, come spesso è accaduto e ancora accade, retorico-moralistico o retorico-ideologico»; ma in «un atto fondamentalmente conoscitivo»[3].
La Storia di Dotti pare, invece, ordinata più sulle idee che sugli uomini: è vita ridotta a “battaglia di princìpi” – e, fondamentalmente, due: la metafisica e l’«immanenza umana». E’ una narrazione dove, non allontanandosi da Hegel, l’autore ha voluto “attraverso la ragione”, e in nome di quella, “eliminare” ogni manifestazione dell’accidentale.
Se l’essenziale si configura, allora, come Croce o come Gramsci, l’accidentale – solo per restare nell’ambito del primo Novecento – si chiama Vailati, Prezzolini, Savinio, Papini e tanti altri intellettuali di cui non si trova menzione. Se l’essenziale è il «grande scrittore e [il] vero intellettuale» (I, p. xiii) assunti a guida per «la grande storia del presente e dell’avvenire» (II, p. 3), l’accidentale, ovvero lo scrittore minore, il personaggio meschino, questo tipo di individuo che non si sa quanto intellettuale sia e quanto imbroglione o furfante, viene irrimediabilmente espulso dalla storia, sottraendolo, paradossalmente, alla critica.
Quando Dotti afferma, a propria salvaguardia, che l’opera «non è […] né una storia della letteratura italiana e neppure, a rigor di termini, una storia dei nostri intellettuali» (I, p. xi), ma che «potrebbe ambire, se mai, al titolo di ‘storia delle idee’», di fatto ci conferma nell’intuizione che egli non abbia voluto scrivere una ‘storia’ ma elaborare un ‘sistema’. Perché anche il lettore distratto, ad un certo momento, non può che chiedersi: e le idee di Carducci? E quelle di Papini? E che fine ha fatto Pirandello?
Davvero poca cosa due capitoli sulla fine dell’800 e la prima metà del ‘900 – La questione nazionale (pp. 171-243) e La lotta al socialismo (pp. 244-304) – e la breve annotazione nelle pagine dell’Epilogo:
Il Novecento si apre […] con quella lezione pascoliana, e soprattutto dannunziana, in cui il soggettivismo d’antica origine romantica si esaspera in una sorta di ‘monumentalità filistea’, dove la diffidenza per il disagio della vita moderna si trasforma a volte in odio – odio per la società, odio per il ‘borghese’ – e a volte diventa indifferenza orgogliosa, snobismo, mero esoterismo. Questo esagerato culto dell’individuo, questo parossistico amore per una presunta ‘libertà’ che a volte, come in un Pirandello, diviene occasione per puri giochi intellettualistici e che purtroppo, in casi meno ‘letterari’ e di dimensioni socialmente rilevanti (il futurismo), divenne un vero e proprio inno all’iconoclastia e alla volgarità (oltre che un messaggio d’impotenza travestito da furore), e che proprio per questo mieté tanti successi nell’ambito dei ceti piccolo e medio-borghesi; che preparò la prima guerra mondiale e il successivo trionfo del fascismo; tutto questo, in realtà, non fece che svelare e rendere chiaro l’abisso che si era spalancato tra la società e lo scrittore, tra il popolo e l’intellettuale (III, pp. 313 e 314).
In una storia degli intellettuali italiani, per quanto possa disturbarci e per quanto si rischi di turbare il “sonno”, di cui sopra, del buon lettore, bisogna che si trovi, ben diversamente, la «violenza travolgente e incendiaria» del futurismo:
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le
accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e
contro ogni viltà opportunistica e utilitaria. […] E vengano dunque, gli
allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date
fuoco agli scaffali delle biblioteche!… Sviate il corso dei canali, per
inondare i musei!… Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e
stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le
scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate![4].
Bisogna che si ragioni, e a lungo, sull’urlo del tribuno Corradini:
Ebbene, amici, il nazionalismo [deve] insegnare
all’Italia il valore della lotta internazionale. Ma la lotta internazionale è
la guerra? Ebbene, sia la guerra! E il nazionalismo susciti in Italia la
volontà della guerra vittoriosa[5].
E’ necessario soffermarsi sulle pagine de Il fanciullino di Pascoli:
Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale
che significhi solo ciò che il fanciullino detta dentro, riesce perciò
ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. […]
Ora il poeta sarà […] un autore di provvidenze civili e sociali? Senza
accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e
sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso
l’ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova
ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia
povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di
tutti.
E’ doveroso affondare lo stivale nel fango di trincea e sentir fischiare sul capo le pallottole dei cecchini austriaci insieme a Salsa:
La corvée non è arrivata questa notte in trincea: forse è stata spazzata per via da quel bombardamento che si scatenò breve e rabbioso, senza perché. Qualche pagnotta si trova sempre, a cercarla, anche perché molti preferiscono stringere la cinghia piuttosto che muoversi in mezzo alle pallottole. Ma non si trova nemmeno un sorso d’acqua, e la sete arroventa la gola e disperde le parole[6].
Ci si aspetta di trovare Serra che discute con Croce; si vuole incontrare Carducci intero e il mito del risorgimento.
Non si vede, altrimenti, come possa compiersi quel solido «rapporto col passato» ispirato ad una «feconda dialettica» (I. p. xii), di cui Dotti anticipa senza poi risolvere. Non si capisce come e in che misura l’oggi derivi il suo male dal male di ieri, da uomini le cui idee hanno mosso fatti, producendo una e cento realtà consumatesi, di volta in volta, sotto le specie varie del banale, dell’orrido e del funesto.
* L’intervento è stato pubblicato il 31/12/99 in «Scuola e Città», n. 12
[1] Come tiene a sottolineare Dotti, è «una vecchia ma sempre valida osservazione di Gyorgy Lukàcs, quella per la quale solo coloro che non conoscono affatto il marxismo, o che lo conoscano solo superficialmente e per sentito dire, restano stupiti del rispetto che i veri grandi rappresentanti di questa dottrina ebbero ed hanno sempre per l’eredità classica, risalendo e richiamandosi costantemente ad essa»; III, p. 314.
[2] A. Asor Rosa, Genus italicum, Torino 1997, p. xviii.
[3] Idem. Cfr. anche La storiografia letteraria come operazione di conoscenza in A. Asor Rosa (a cura di), La scrittura e la storia. Problemi di storiografia letteraria, Firenze 1995, p. 5.
[4] Fondazione e Manifesto del Futurismo, in «Figaro», 20 febbraio 1909.
[5] E. Corradini, Principii di nazionalismo, Relazione presentata al I congresso nazionalista a Firenze il 3 dicembre 1910.
[6] C. Salsa, Trincee, 1924.