LA GENESI DEI “QUATTRO LIBRI DI LETTURA” DI TOLSTOJ*
Spesso l’interpretazione del
percorso spirituale ed umano lungo il quale si sviluppa la creazione artistica
consente di comprendere i motivi ispiratori più profondi di un’opera e al tempo stesso di inquadrarla sullo
sfondo storico nel quale è maturata; ciò appare tanto più vero per un autore
come Tolstoj, la cui esasperata sensibilità si traduce in una percezione acuta
quanto sofferta della realtà. Sebbene il carattere dello scrittore, quale
emerge dalla testimonianza dei contemporanei, appaia risoluto e fermo, dotato
di magnetismo tale da conquistare adepti alle cause più disparate, egli viene
presentato da diversi critici come un uomo tormentato e, in diversi momenti
della sua vita, preda del dubbio[1].
Parlando degli anni attorno
al 1860, Charles Baudouin ricorda come «a ce moment, il subissait déjà una
crise morale [...]. Son oeuvre littéraire lui apparaissait dénuée de sens
[...], les doutes et les tourments le poursuivirent, et furent le grand aiguillon
de ses recherches»[2]. Già negli
anni della prima giovinezza, Tolstoj, «assorto nella meditazione, dedito alla
introspezione»[3], come lo
ritrae Boris Michajlovič Ejhenbaum, appare, nelle pagine del Diario, fortemente critico verso se
stesso; del resto la frequenza quasi ossessiva con cui traccia piani di studio
e regole di vita, denunciando una forte ansia di rinnovamento morale, conferma
al tempo stesso il desiderio di ancorare la propria esistenza a qualcosa di
definito[4].
La temperie spirituale di questi anni, che si può leggere come un appassionante
Bildungsroman, verrà descritta
diversi anni dopo con impietosa autoanalisi nelle pagine di Confessione (1882), che suonano come
violenta accusa all’ipocrisia degli ambienti raffinati nel cui ambito si era
mosso il giovane Tolstoj.
Non posso ricordarmi di quegli anni [gli anni della
giovinezza] senza orrore, disgusto e profondo dolore. Uccisi degli uomini in
guerra e altri ne sfidai a duello per ucciderli, giocavo e perdevo al gioco
dilapidando il frutto del lavoro dei contadini, fornicavo, ingannavo. Menzogne,
furti, adulteri di tutti i generi, ubriachezza, violenze, omicidi... non ci fu
delitto che io non commettessi, e per tutto questo venivo lodato e i miei
coetanei mi consideravano -e tuttora mi considerano- come un uomo relativamente
morale[5].
Come si può notare, nessuna
indulgenza interviene a mitigare un giudizio morale di severa condanna che i
molti anni trascorsi hanno scavato nella coscienza di un uomo insoddisfatto di
sé e della propria vita, continuamente rivolto al perfezionamento della propria
anima sulla base di regole dure e pratiche talora mortificanti. La radice
dell’atteggiamento critico che accompagna Tolstoj fino agli ultimi giorni di
vita, va rintracciata comunque nella crisi degli anni giovanili che, segnando
il completo capovolgimento della scala di valori fino allora accettata, ha
condizionato l’intera vicenda artistica ed umana dello scrittore. Sicuramente,
come del resto attestano le pagine del diario, la malattia e la morte del
fratello Nikolaj, che chiudono idealmente la giovinezza di Tolstoj, incisero
profondamente su un animo già predisposto alla sofferenza, sicché il senso di
vuoto ed il dolore provato fecero precipitare una situazione di angoscia già da
tempo latente, affrettandone però la soluzione[6];
in questi anni difficili il carattere di Tolstoj si ridefinisce sulla base di
parametri morali che il duro contatto con la realtà impone ad un animo
intransigente e nobile come quello dello scrittore.
«Temperamento critico e
negativo per eccellenza»[7],
come lo ritrae Mario Bernabei, Tolstoj oppose sempre al pessimismo
dell’intelligenza l’ottimismo di una ferrea volontà che, agli inizi, un po’
romanticamente, si proponeva di non far dipendere da alcuna influenza esterna;
ciò «perché nell’uomo che non dipende da alcuna influenza esterna, lo spirito
con le sue esigenze prevale necessariamente sulla materia, e allora l’uomo
realizza il suo scopo»[8].
L’astrattezza di questa
posizione, assunta all’età di diciannove anni, sembra contraddetta da quanto
Tolstoj sostiene diversi anni dopo, a distanza di un mese dalla morte di
Nikolaj, allorché il 28 ottobre 1860 annota sul diario che «l’unico mezzo per
vivere è lavorare. Per lavorare bisogna amare il lavoro. Per amare il lavoro
occorre che il lavoro attragga»[9].
Queste parole rappresentano il segno della raggiunta maturità con cui Tolstoj
affronta il proprio destino, cercando di imprimere alla propria vita una decisa
svolta, attuata di lì a poco in direzione del concreto impegno pedagogico che
avrebbe costituito il rimedio più efficace a quel senso di angoscia e
precarietà che i successi letterari conseguiti fino ad allora evidentemente non
valevano a colmare[10].
Di ritorno dall’estero, in
una lettera scritta a Jasnaja Poljana il 12-14 maggio 1861, indirizzata a
Aleksandra Andreevna Tolstaja, Tolstoj confida la propria gioia per essere
tornato a Jasnaja Poljana e per essere molto indaffarato, «in primo luogo con i
soliti lavori, in secondo luogo con la scuola che andava avviata bene sin
dall’inizio»[11]; poche
righe più avanti, Tolstoj comunica ad Alexandrine la propria intenzione di
continuare ad occuparsi della tenuta, della scuola e della rivista ad essa
collegata, ancora da pubblicare, «con zelo e con perseveranza, per tutta la
vita e con tutte le mie forze»[12].
Da queste frasi sembra emergere un uomo nuovo, entusiasta, ricco di idee e
spirito di iniziativa, lontano dalle tristi riflessioni dell’anno precedente.
La stessa impressione si ricava leggendo la lettera a A. A. Tolstaja dei primi
di agosto dello stesso anno, dove Tolstoj, parlando della scuola di Jasnaja
Poljana, la definisce «un lavoro poetico, bellissimo, dal quale è difficile
staccarsi»[13]. Con
entusiasmo e dimostrando un profondo attaccamento ai propri allievi, lo
scrittore descrive poi l’attività della scuola, rilevando con compiacimento e
giustificato orgoglio come «nel corso di due anni, nella totale assenza di
disciplina, non è stato punito né un ragazzo né una ragazza: non ci sono stati
né pigrizia né rozzezza né brutti scherzi né parole indecenti»[14].
Ad un certo punto Tolstoj
affiancò all’insegnamento la pubblicazione della rivista “Jasnaja Poljana”,
vero e proprio laboratorio pedagogico che ha consentito la ricostruzione delle
tappe attraverso cui lo scrittore ha elaborato teorie educative che hanno poi
segnato la composizione dei Libri di
lettura. E’ questo il momento di più intensa attività pedagogica per
Tolstoj che, con passione e dedizione pressoché totale, vive nella scuola di
Jasnaja Poljana un’esperienza che lo indurrà a modificare profondamente la
propria visione del mondo e il concetto stesso di creazione artistica; il
contatto diretto con i figli dei contadini schiude al giovane conte inediti
scenari poetici, suscita entusiasmi, pone in discussione certezze acquisite[15].
Nell’articolo La scuola di Jasnaja
Poljana in novembre e dicembre (1862), Tolstoj, rievocando i discorsi coi
propri alunni durante una passeggiata serale nel bosco, analizza la nascita del
sentimento artistico in Fedka, alunno sensibile e legatissimo al maestro. Da
una domanda del bambino sulla finalità del canto e della pittura, Tolstoj e i
suoi allievi giungono per gradi a stabilire che «l’utilità non è tutto, che vi
è la bellezza, e che l’arte è la bellezza»[16].
La discussione tra i ragazzi, che fuori della scuola assumono atteggiamenti più
liberi e disinvolti, procede con toni serrati e Tolstoj, confermando la stessa
capacità di introspezione che ha reso indimenticabili i personaggi dei suoi
romanzi, tratteggia di ciascun allievo un ritratto psicologico limpido e
palpitante di vita.
Fedka comprese perfettamente perché il tiglio
germoglia e perché abbiamo bisogno di cantare. Pron’ka era d’accordo con noi,
ma capiva meglio la bellezza morale, il bene. La grande intelligenza permetteva
a Sëmka di capire perfettamente, ma egli non ammetteva il bello senza l’utile
[...]. Aveva buon orecchio, ma non aveva né gusto, né eleganza nel canto.
Mentre Fedka capiva perfettamente che il tiglio è buono quando è coperto di
foglie, che fa piacere guardarlo e che solo questo basta, Pron’ka capiva che è
male tagliarlo perché è un essere vivente [...]. Sëmka taceva, ma pensava
evidentemente che la betulla è poco utile quando è secca[17].
Ciascun bambino emerge da
queste brevi, incisive osservazioni con una personalità nitidamente scolpita,
al punto che il lettore può credere di conoscere Sëmka o Pron’ka, di
comprendere il loro punto di vista, i loro sentimenti, resi da Tolstoj con
espressioni precise e al tempo stesso commosse. E’ certamente possibile che,
ripensando a questi bambini come ideali lettori, Tolstoj abbia compreso che
taglio dovessero avere i Libri di lettura
per risultare interessanti e piacevoli; lo scrittore inoltre, grazie alla
propria intensa attività di maestro, aveva acquisito la certezza che «il popolo
ama e ricerca l’istruzione come ama e ricerca l’aria che respira»[18].
Tuttavia, la miopia dell’istituzione scolastica che, secondo lo scrittore,
mortifica la personalità degli allievi, obbligandoli a rinunciare alla propria
identità, «provoca necessariamente il disgusto per l’istruzione, abitua
all’ipocrisia e al sotterfugio, frutti delle condizioni innaturali imposte agli
allievi, e porta ad un’acquisizione confusa di quelle stesse nozioni che
rientrano nell’ambito della scrittura e della lettura»[19].
La ricomposizione
dell’armonia originaria, turbata da educatori che piegano gli allievi alle
proprie pretese, può attuarsi solo a patto che sia garantita a ciascun bambino
la libera espansione delle proprie attitudini e che non venga soffocato quel
«qualcosa d’indefinibile, che sfugge al controllo del maestro, qualcosa di
totalmente sconosciuto alla scienza pedagogica e che, nello stesso tempo,
contribuisce al successo degli studi. E’ lo spirito della scuola»[20],
che diviene operante solo allorché gli alunni si sentono parte attiva del
processo di formazione. Senza darne una definizione precisa, Tolstoj qualifica
lo spirito della scuola come qualcosa «che si trova sempre in rapporto inverso
alla costrizione e all’ordine della scuola, in rapporto inverso all’influenza
del maestro sul modo di pensare degli alunni, in rapporto diretto al numero
degli alunni»[21].
L’indimostrabilità scientifica dello «spirito della scuola» è probabilmente ciò
che per Tolstoj ne accresce il valore sul piano della concreta verificabilità:
esistono relazioni umane che, pur non potendo essere ricondotte a schemi di
comportamento o giudicate in base a norme oggettive, si impongono tuttavia per
la loro evidenza e forza.
La suggestione e l’incanto
degli anni d’insegnamento a Jasnaja Poljana rivivono, attraverso la mediazione della
scrittura, nei Libri di lettura,
complemento artistico di una esperienza di vita mai dimenticata e sempre
rimpianta; Tolstoj, a distanza di anni, torna a rivolgersi ai bambini, non tra
i banchi di una scuola elementare, ma attraverso le pagine di un testo su cui
avrebbero studiato «due generazioni di tutti i bambini russi, dai figli dello
zar ai figli dei mužiki», i quali ne
avrebbero ricavato «le prime impressioni poetiche»[22].
I Libri di lettura dovevano però
superare il giudizio critico di lettori che Tolstoj, sulla base delle
esperienze nella scuola di Jasnaja Poljana, prevedeva sarebbero stati molto
esigenti; i bambini difatti, più vicini degli adulti all’armonia originaria,
intuiscono immediatamente il tono falso ed insincero di un libro, di un’esortazione,
di un consiglio. Per assicurarsi il più attendibile degli imprimatur, Tolstoj, come ricorda Agostino Villa, si faceva
ripetere i racconti da lui scritti o tradotti «dalla viva voce di un ragazzo di
campagna, cogliendo a volo le locuzioni più vive e felici, e tenendo di mira
soprattutto i punti che non lo soddisfacevano nel testo da lui preparato»[23],
il che conferma come la composizione e la stesura dell’Abbecedario assorbissero tutta l’attenzione e la cura di Tolstoj,
che seguì poi con trepidazione le controverse vicende legate alla pubblicazione
dell’opera[24].
Per comprendere quanto del
proprio animo Tolstoj abbia trasfuso nell’attività di maestro e quindi
nell’opera che ne costituisce l’immagine più limpida, è fondamentale la lettura
della risposta, datata 26-27 novembre 1865, alla richiesta di incoraggiamento
che gli era stata rivolta da A. A. Tolstaja, in attesa di assumere l’incarico
di istitutrice della granduchessa Marija Aleksandrovna, figlia di Alessandro
II. Sostenendo con forza, nel rapporto educativo, la priorità del cuore sulla
ragione, Tolstoj consiglia ad Alexandrine di seguire «l’istinto [...], influsso
umano e appassionato [che] ha un effetto benefico, edificante sui figli degli
uomini, mentre l’influsso razionale, logico ha un effetto nocivo». Secondo
Tolstoj l’educazione, così come s’è storicamente affermata, è minata da un
errore di fondo: tutti pretendono di educare «con la ragione, mentre tutto il
resto, cioè tutto quel che è più importante, è lasciato a se stesso».
Proseguendo nella dimostrazione della sua tesi, rigorosa e semplice al tempo
stesso, lo scrittore giunge a conclusioni in cui si riflette l’essenza più
profonda delle sue convinzioni.
Non possiamo ingannare i bambini, sono più
intelligenti di noi. Vogliamo dimostrare loro di essere ragionevoli, ma ciò non
li interessa affatto, essi vogliono sapere piuttosto se siamo onesti, giusti,
buoni, compassionevoli, se abbiamo una coscienza; e sfortunatamente vedono,
dietro i nostri sforzi di essere a tutti i costi infallibilmente ragionevoli,
che non c’è altro[25].
In queste parole, così
appassionate e vibranti, si avverte, al di là della determinazione, un’istanza
etica molto forte; l’intelligenza diviene un mezzo per scoprire e comprendere
valori come l’onestà, la sincerità, la bontà, per ammettere i propri errori e
smascherare la insincerità altrui. Un’altra lettera dello stesso periodo,
sempre indirizzata ad Alexandrine, prova come Tolstoj, ad alcuni anni dalla
chiusura della scuola di Jasnaja Poljana, continuasse a riflettere sui temi
dell’educazione, aspettando con impazienza il momento di insegnare ai propri
figli e meditando di scrivere un compendio su quanto aveva appreso in campo
pedagogico[26]. In
effetti, i Libri di lettura, sintesi
di un’esperienza educativa formatasi nel corso degli anni e di una sensibilità
artistica piena e consapevole, hanno rappresentato per Tolstoj un impegnativo
banco di prova sia sul piano letterario che pedagogico, come conferma un’altra
lettera alla contessa Tolstaja.
L’inizio del mio Abbecedario
è già in stampa, mentre io scrivo e amplio la fine. Solo questo Abbecedario potrebbe fornire lavoro per
cento anni. Esso richiede la conoscenza della letteratura greca, indiana,
araba: ci vogliono tutte le scienze naturali, l’astronomia, la fisica e un
terribile lavoro sulla lingua: bisogna che tutto sia bello, succinto, semplice
e soprattutto chiaro[27].
Nella sua analisi dei
sillabari russi pubblicati a partire dal sec. XVI Daniela Liberti mostra di
ritenere il contributo di Tolstoj «il coronamento di quelle ricerche ma nello
stesso tempo uno stimolo per l’apertura di una fase nuova nel settore dei
manuali divulgativi»[28];
la miglior conferma del carattere innovativo dell’Abbecedario è data dal fatto che ancora oggi brani dei Libri di lettura «vengono inseriti nei moderni sillabari e nelle antologie
delle scuole russe e straniere, a sottolinearne la mai perduta attualità»[29].
Dovendo precisare cosa
conferisca modernità ad un’opera scritta più d’un secolo fa non si potrebbe
certo far riferimento ad una teoria pedagogica ispirandosi alla quale Tolstoj
abbia creato il miglior abbecedario dei suoi tempi; al contrario, la vitalità
dei Libri di lettura si deve proprio
all’assenza di implicazioni pedagogiche che ne avrebbero inevitabilmente
causato il superamento. Ciò che costituisce il valore intrinseco dell’antologia
tolstoiana è l’inevitabile disegno dell’autore, che sorregge scelte ed
esclusioni entrambe significative, volte a conferire un’impronta unitaria ad
un’opera per comporre la quale Tolstoj «si sforzò di scoprire, raccogliere,
esporre le verità eterne, di risvegliare l’interesse spontaneo, la fantasia,
l’amore, la curiosità dei bambini e della gente semplice»[30];
non si comprenderebbe altrimenti come una raccolta di brani di così diversa
origine abbia una tale unitarietà di tono da apparire come il risultato di
un’unica volontà e di un’unica ispirazione.
D’altro canto la
straordinaria coesione di un’opera che, collazionando brani di autori ed epoche
diverse, ci si aspetterebbe eterogenea e un po’ dispersiva, non è certo un
effetto abilmente ricercato quanto piuttosto la naturale espressione di un
genio artistico la cui capacità di entrare in comunione profonda con le cose e
con la vita, secondo Thomas Mann irradia «d’un succo e d’una freschezza vitale,
che le fa irresistibili, le sue parole, così aride e confuse quando invece
teorizzano soltanto»[31];
Mann rimprovera a Tolstoj l’asprezza di certe posizioni ideologiche
intransigenti e definitive che vengono interpretate come «lo sforzo di
liberarsi dalla natura, dalla spontaneità, dalla indifferenza morale, per
salire allo spirito, cioè a una valutazione morale e perfino sociale»[32].
In realtà non si comprende Tolstoj separando lo scrittore dal polemista, dal
momento che le posizioni critiche assunte su molti temi di etica sociale o di
letteratura sono forse la conseguenza, più che l’antitesi, di un’aderenza alla
realtà non soltanto proclamata ma vissuta in concreto. Se il rigore
intellettuale provoca a volte irrigidimento (come nel caso della famosa
stroncatura di Shakespeare), ciò forse si deve ascrivere all’intransigenza del
carattere più che all’«invidia che il moralmente tormentato prova per la
felicità del mondo, per l’ironia, retaggio degli spiriti assolutamente
creatori»[33].
Del resto, accanirsi a
ricercare nei saggi tolstoiani significati troppo reconditi può talvolta
fuorviare dalla corretta comprensione di un pensiero che, nonostante la
complessità e la varietà delle tematiche trattate, mantiene sempre coerenza e
linearità. Per esempio, può forse sembrare troppo semplice che, come sostiene
Giorgio Cerrai, Tolstoj ponga a fondamento dell’opera educativa del maestro il
lavoro manuale come sintesi di ogni principio scientifico e religioso.
L’uomo, per Tolstoj, prescindendo da qualsivoglia
religione positiva, vive singolarmente la esperienza del divino attraverso la
fratellanza, l’unione con gli altri uomini, come già, analogamente, Rousseau
aveva affermato il concetto di religione naturale fondata sul lume interiore
del sentimento. In tale contesto è proprio il lavoro che offre, a livello
pedagogico, particolari possibilità di far comprendere la validità della
collaborazione nel lavoro, con la gratificazione spirituale e umana che ne
consegue. Il lavoro purifica l’uomo perché ne piega l’animo e il corpo ad una
legge che lo sovrasta e lo ricollega a quell’intima essenza della libertà che è
lo spirito divino: solo nella produzione di cose utili agli altri e a sé,
l’individuo si sentirà soddisfatto della sua natura di uomo[34].
La rivalutazione del lavoro
manuale come mezzo di elevazione dell’anima, ideale benedettino rivissuto da
Tolstoj nella pienezza del suo valore, è in fondo nient’altro che la naturale
conseguenza dell’adesione morale e spirituale a quel mondo contadino in cui il
messaggio di Cristo, libero dalle sedimentazioni storiche dell’ipocrisia e
della ragion di stato, ha continuato a vivere nella sua originaria purezza,
nonostante i tentativi operati dal potere di soggiogare la mente e il cuore
degli uomini.
Elisa Medolla
*Articolo apparso sul n. 4 di “Slavia”, ottobre-dicembre 1998.
[1] Perfino negli ultimi anni di vita, «nelle opere, negli articoli, nei colloqui, nelle lettere, troviamo i tipici appelli tolstoiani ad allontanarsi dalla politica e allo stesso tempo un’impostazione insolitamente acuta dei problemi politici attuali [...]. Egli viveva così intensamente le sofferenze del popolo che queste divenivano sue sofferenze personali» (dalla prima parte dell’articolo di B. Meilakh Ritiro e morte di Lev Tolstoi, apparso su “Rassegna sovietica”, n. 1, 1961, pp. 18-19.).
[2] C. Baudouin, Tolstoï educateur, ed. Delachaux et Niestlé, Neuchatel-Paris, 1931, p. 31; cfr., poco più avanti, lo stesso testo, dove vien detto che «comme Descartes en philosophie, Tolstoï, en pédagogie, part du doute, et d’un doute plus profond que celui de Descartes. Le doute, dans l’un et l’autre cas, sera la source de certitudes nouvelles», p. 91.
[3] B. M. Ejhenbaum, Il giovane Tolstoj. La teoria del metodo formale, Bari, De Donato, 1968, p. 15.
[4] L. Tolstoj, Diari 1847-1910, Milano, Longanesi, 1980 (ristampa 1997 per i tipi della Garzanti), cfr. le note del 24/3/1847 («io sono molto cambiato: ma non ho ancora raggiunto quel quadro di perfezione nelle attività pratiche, che vorrei raggiungere», p. 26), 7/4/1847 («in un diario deve trovarsi una tabella delle norme, nel diario devono essere anche definiti i miei atti futuri», ibidem), 18/4/1847 («ho scritto molte norme, e volevo seguirle tutte; ma le mie forze sono troppo deboli per questo», p. 29), 8/8/1857 («sto bene e sono triste, ma la Russia mi è disgustosa, e sento che questa vita rozza e menzognera mi serra da tutte le parti», p. 153), 9/10/1859 («disordinato, bilioso, annoiato, disperato e pigro. Mi sono dedicato all’azienda, ma poco e male», p. 194); come osserva M. Pljuchanova, «un simile scavare in se stesso, con castighi e autoflagellazioni, rimarrà sino alla fine un elemento costante dell’opera di Tolstoj» (M. Colucci-R. Picchio, Storia della civiltà letteraria russa, vol. I, voce “Tolstoj” a cura di M. Pljuchanova, Torino, UTET, 1997, p. 697).
[5] L. Tolstoj, La confessione, Milano, Sugarco, 1979, pp. 32-33.
[6] Id., Diari, ed. cit.: «13-25 ottobre 1860. Hyères. Fra poco è un mese che è morto Nikolenka. Questo avvenimento mi ha terribilmente strappato dalla vita. E ancora la domanda: perché? Siamo già vicini alla partenza per là. Per dove? Per nessun posto.[...] La morte di Nikolenka è stata l’impressione più forte della mia vita», p. 198; «12 novembre 1860. E’ morto nelle sofferenze un bambino di tredici anni, di tubercolosi. Perché? L’unica spiegazione la dà la fede nella nemesi della vita futura. Se essa non c’è, allora non c’è giustizia, e non occorre la giustizia, e la richiesta di giustizia è superstizione», p. 199. Tolstoj descriverà con toccante realismo la morte di Nikolaj in alcuni capitoli di Anna Karenina, adombrando in Nikolaj Levin la figura del fratello (Anna Karenina, parte quarta, capp. XVII-XX, vol. II, pp. 544-62).
[7] M. Bernabei, Leone Tolstoj. Un’anima grande contro una scuola disumana, Milano, 1929, p. 22.
[8] L. Tolstoj, I diari 1847-1910, ed. cit.; note del 16/6/1847, p. 29.
[9] Ivi, p. 198.
[10] All’epoca Tolstoj aveva già pubblicato i Racconti di Sebastopoli e la trilogia Infanzia, Adolescenza, Giovinezza.
[11] L. Tolstoj, Le lettere, Milano, Longanesi, 1977-78, vol. I, p. 273; l’apertura della scuola risale al 1859, ma l’attività didattica si intensifica a partire dal 1861.
[12] Ibidem.
[13] Lettera dei primi di agosto 1861, dalle Lettere, ed. cit., vol. I, p. 276.
[14] Ibidem; la lettera prosegue illustrando il metodo d’insegnamento adottato nella scuola e che si può senza dubbio definire sperimentale: «la scuola consiste in tre grandi camere, una rosa e due azzurre. In una stanza c’è inoltre un museo. Sugli scaffali lungo le pareti sono disposti pietre, farfalle, scheletri, erbe, fiori, strumenti fisici eccetera. La domenica il museo è aperto a tutti, e il tedesco di Jena fa degli esperimenti. Una volta la settimana c’è la lezione di botanica e noi tutti andiamo nel bosco a cercare i fiori, le erbe e i funghi. Ci sono quattro lezioni di canto la settimana, sei di disegno e tutte sono fatte molto bene. L’agrimensura va così bene, che i ragazzi vengono già chiamati dai mužiki»; erbe, fiori, animali, semplici fenomeni fisici saranno tra gli argomenti trattati con maggior ampiezza nei Libri di lettura.
[15] Nel 1876, in una lettera datata 29 febbraio/1marzo, indirizzata al principe Lvov, Tolstoj, lamentando la cattiva accoglienza, di pubblico e di critica, riservata fino ad allora all’Abbecedario e ai Libri di lettura, difenderà con forza stile e contenuti dell’opera, legittimati dalla profonda conoscenza del modo di sentire e di esprimersi dei bambini: «so come pensa il popolo e il bambino del popolo e so come parlare con lui; e questo sapere non mi è caduto dal cielo perché ho un talento (la parola più stupida, più assurda), bensì perché ho acquisito questo sapere con amore e con fatica» (Le lettere, ed. cit., vol. II, p. 14).
[16] L. Tolstoj, La scuola di Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, a cura di U. Zandrino, Bergamo, Minerva Italica, 1965, p. 60.
[17] Ibidem.
[18] L. Tolstoj, L’istruzione pubblica, in Scritti pedagogici, a cura di G. Santomauro, Bari, Adriatica, 1972, p. 25.
[19] Ivi, pp. 34-35.
[20] La scuola di Jasnaja Poljana in novembre e dicembre, ed. cit., p. 97.
[21] Ibidem.
[22] Le lettere, ed. cit., vol. I, p. 378.
[23] Introduzione ai Quattro libri di lettura, Torino, Einaudi 1964, p. XVIII.
[24] Un resoconto dettagliato delle disavventure editoriali dell’Abbecedario si trova nella nota introduttiva di Agostino Villa all’edizione Einaudi dei Libri di lettura, recentemente ristampata; mi limiterò, in questo luogo, a riassumerne i passaggi più significativi. Dopo l’insuccesso dell’edizione del 1872, causato anche dal fatto che come manuale scolastico l’Abbecedario non aveva avuto l’approvazione del Ministero della Pubblica istruzione, Tolstoj predispose nel 1874 una nuova edizione, accolta anch’essa poco favorevolmente sia dal pubblico che dalla critica. Nel novembre del 1875 una profonda revisione dell’Abbecedario vide la luce sotto il titolo di Nuovo Abbecedario. Come ricorda Villa, «in questa redazione, i testi di lettura furono separati dall’abbecedario propriamente detto, e raccolti in quattro Libri di lettura, con ritocchi importanti e notevole arricchimento di materiale, mentre una dozzina dei vecchi racconti venivano esclusi (p. XXIV).
[25] Le lettere, ed. cit., vol. I, pp. 341-42; secondo Rosetta Finazzi Sartor, Tolstoj «distingue due tipi di conoscenza, la conoscenza per mezzo della ragione (Znanie razouma) alla quale è contrapposta la conoscenza per mezzo del cuore (Znanie serdlsa)» (R. Finazzi Sartor, Tolstoj maestro nella scuola di Jasnaja Poliana, in “Rassegna di pedagogia”, n. 1, 1965, p. 22).
[26] Lettera del 14/11/1865 a A. A. Tolstaja, ed. cit., vol. I, p. 337.
[27] Lettera del 6-8(?)/4/1872 a A. A. Tolstaja, ivi, p. 384.
[28] D. Liberti, I sillabari russi, in “Slavia”, n. 2, 1993, p. 157.
[29] Ibidem.
[30] I. Berlin, Tolstoi e l’educazione del popolo, in “Tempo presente”, settembre-ottobre 1960, p. 636.
[31] T. Mann, Goethe e Tolstoi, in Nobiltà dello spirito, saggi critici, Milano, Mondadori, 1953, p. 39.
[32] Ivi, p. 36.
[33] Ibidem.
[34] G. Cerrai, Aspetti della pedagogia libertaria in Leone Tolstoj, in “Rassegna sovietica”, settembre-ottobre 1989, pp. 149-50.