LA GENESI DEI “QUATTRO LIBRI DI LETTURA” DI TOLSTOJ*

 

Spesso l’interpretazione del percorso spirituale ed umano lungo il quale si sviluppa la creazione artistica consente di comprendere i motivi ispiratori più  profondi di un’opera e al tempo stesso di inquadrarla sullo sfondo storico nel quale è maturata; ciò appare tanto più vero per un autore come Tolstoj, la cui esasperata sensibilità si traduce in una percezione acuta quanto sofferta della realtà. Sebbene il carattere dello scrittore, quale emerge dalla testimonianza dei contemporanei, appaia risoluto e fermo, dotato di magnetismo tale da conquistare adepti alle cause più disparate, egli viene presentato da diversi critici come un uomo tormentato e, in diversi momenti della sua vita, preda del dubbio[1].

Parlando degli anni attorno al 1860, Charles Baudouin ricorda come «a ce moment, il subissait déjà una crise morale [...]. Son oeuvre littéraire lui apparaissait dénuée de sens [...], les doutes et les tourments le poursuivirent, et furent le grand aiguillon de ses recherches»[2]. Già negli anni della prima giovinezza, Tolstoj, «assorto nella meditazione, dedito alla introspezione»[3], come lo ritrae Boris Michajlovič Ejhenbaum, appare, nelle pagine del Diario, fortemente critico verso se stesso; del resto la frequenza quasi ossessiva con cui traccia piani di studio e regole di vita, denunciando una forte ansia di rinnovamento morale, conferma al tempo stesso il desiderio di ancorare la propria esistenza a qualcosa di definito[4]. La temperie spirituale di questi anni, che si può leggere come un appassionante Bildungsroman, verrà descritta diversi anni dopo con impietosa autoanalisi nelle pagine di Confessione (1882), che suonano come violenta accusa all’ipocrisia degli ambienti raffinati nel cui ambito si era mosso il giovane Tolstoj.

 

Non posso ricordarmi di quegli anni [gli anni della giovinezza] senza orrore, disgusto e profondo dolore. Uccisi degli uomini in guerra e altri ne sfidai a duello per ucciderli, giocavo e perdevo al gioco dilapidando il frutto del lavoro dei contadini, fornicavo, ingannavo. Menzogne, furti, adulteri di tutti i generi, ubriachezza, violenze, omicidi... non ci fu delitto che io non commettessi, e per tutto questo venivo lodato e i miei coetanei mi consideravano -e tuttora mi considerano- come un uomo relativamente morale[5].

 

Come si può notare, nessuna indulgenza interviene a mitigare un giudizio morale di severa condanna che i molti anni trascorsi hanno scavato nella coscienza di un uomo insoddisfatto di sé e della propria vita, continuamente rivolto al perfezionamento della propria anima sulla base di regole dure e pratiche talora mortificanti. La radice dell’atteggiamento critico che accompagna Tolstoj fino agli ultimi giorni di vita, va rintracciata comunque nella crisi degli anni giovanili che, segnando il completo capovolgimento della scala di valori fino allora accettata, ha condizionato l’intera vicenda artistica ed umana dello scrittore. Sicuramente, come del resto attestano le pagine del diario, la malattia e la morte del fratello Nikolaj, che chiudono idealmente la giovinezza di Tolstoj, incisero profondamente su un animo già predisposto alla sofferenza, sicché il senso di vuoto ed il dolore provato fecero precipitare una situazione di angoscia già da tempo latente, affrettandone però la soluzione[6]; in questi anni difficili il carattere di Tolstoj si ridefinisce sulla base di parametri morali che il duro contatto con la realtà impone ad un animo intransigente e nobile come quello dello scrittore.

«Temperamento critico e negativo per eccellenza»[7], come lo ritrae Mario Bernabei, Tolstoj oppose sempre al pessimismo dell’intelligenza l’ottimismo di una ferrea volontà che, agli inizi, un po’ romanticamente, si proponeva di non far dipendere da alcuna influenza esterna; ciò «perché nell’uomo che non dipende da alcuna influenza esterna, lo spirito con le sue esigenze prevale necessariamente sulla materia, e allora l’uomo realizza il suo scopo»[8].

L’astrattezza di questa posizione, assunta all’età di diciannove anni, sembra contraddetta da quanto Tolstoj sostiene diversi anni dopo, a distanza di un mese dalla morte di Nikolaj, allorché il 28 ottobre 1860 annota sul diario che «l’unico mezzo per vivere è lavorare. Per lavorare bisogna amare il lavoro. Per amare il lavoro occorre che il lavoro attragga»[9]. Queste parole rappresentano il segno della raggiunta maturità con cui Tolstoj affronta il proprio destino, cercando di imprimere alla propria vita una decisa svolta, attuata di lì a poco in direzione del concreto impegno pedagogico che avrebbe costituito il rimedio più efficace a quel senso di angoscia e precarietà che i successi letterari conseguiti fino ad allora evidentemente non valevano a colmare[10].

Di ritorno dall’estero, in una lettera scritta a Jasnaja Poljana il 12-14 maggio 1861, indirizzata a Aleksandra Andreevna Tolstaja, Tolstoj confida la propria gioia per essere tornato a Jasnaja Poljana e per essere molto indaffarato, «in primo luogo con i soliti lavori, in secondo luogo con la scuola che andava avviata bene sin dall’inizio»[11]; poche righe più avanti, Tolstoj comunica ad Alexandrine la propria intenzione di continuare ad occuparsi della tenuta, della scuola e della rivista ad essa collegata, ancora da pubblicare, «con zelo e con perseveranza, per tutta la vita e con tutte le mie forze»[12]. Da queste frasi sembra emergere un uomo nuovo, entusiasta, ricco di idee e spirito di iniziativa, lontano dalle tristi riflessioni dell’anno precedente. La stessa impressione si ricava leggendo la lettera a A. A. Tolstaja dei primi di agosto dello stesso anno, dove Tolstoj, parlando della scuola di Jasnaja Poljana, la definisce «un lavoro poetico, bellissimo, dal quale è difficile staccarsi»[13]. Con entusiasmo e dimostrando un profondo attaccamento ai propri allievi, lo scrittore descrive poi l’attività della scuola, rilevando con compiacimento e giustificato orgoglio come «nel corso di due anni, nella totale assenza di disciplina, non è stato punito né un ragazzo né una ragazza: non ci sono stati né pigrizia né rozzezza né brutti scherzi né parole indecenti»[14].

Ad un certo punto Tolstoj affiancò all’insegnamento la pubblicazione della rivista “Jasnaja Poljana”, vero e proprio laboratorio pedagogico che ha consentito la ricostruzione delle tappe attraverso cui lo scrittore ha elaborato teorie educative che hanno poi segnato la composizione dei Libri di lettura. E’ questo il momento di più intensa attività pedagogica per Tolstoj che, con passione e dedizione pressoché totale, vive nella scuola di Jasnaja Poljana un’esperienza che lo indurrà a modificare profondamente la propria visione del mondo e il concetto stesso di creazione artistica; il contatto diretto con i figli dei contadini schiude al giovane conte inediti scenari poetici, suscita entusiasmi, pone in discussione certezze acquisite[15]. Nell’articolo La scuola di Jasnaja Poljana in novembre e dicembre (1862), Tolstoj, rievocando i discorsi coi propri alunni durante una passeggiata serale nel bosco, analizza la nascita del sentimento artistico in Fedka, alunno sensibile e legatissimo al maestro. Da una domanda del bambino sulla finalità del canto e della pittura, Tolstoj e i suoi allievi giungono per gradi a stabilire che «l’utilità non è tutto, che vi è la bellezza, e che l’arte è la bellezza»[16]. La discussione tra i ragazzi, che fuori della scuola assumono atteggiamenti più liberi e disinvolti, procede con toni serrati e Tolstoj, confermando la stessa capacità di introspezione che ha reso indimenticabili i personaggi dei suoi romanzi, tratteggia di ciascun allievo un ritratto psicologico limpido e palpitante di vita.

 

Fedka comprese perfettamente perché il tiglio germoglia e perché abbiamo bisogno di cantare. Pron’ka era d’accordo con noi, ma capiva meglio la bellezza morale, il bene. La grande intelligenza permetteva a Sëmka di capire perfettamente, ma egli non ammetteva il bello senza l’utile [...]. Aveva buon orecchio, ma non aveva né gusto, né eleganza nel canto. Mentre Fedka capiva perfettamente che il tiglio è buono quando è coperto di foglie, che fa piacere guardarlo e che solo questo basta, Pron’ka capiva che è male tagliarlo perché è un essere vivente [...]. Sëmka taceva, ma pensava evidentemente che la betulla è poco utile quando è secca[17].

 

Ciascun bambino emerge da queste brevi, incisive osservazioni con una personalità nitidamente scolpita, al punto che il lettore può credere di conoscere Sëmka o Pron’ka, di comprendere il loro punto di vista, i loro sentimenti, resi da Tolstoj con espressioni precise e al tempo stesso commosse. E’ certamente possibile che, ripensando a questi bambini come ideali lettori, Tolstoj abbia compreso che taglio dovessero avere i Libri di lettura per risultare interessanti e piacevoli; lo scrittore inoltre, grazie alla propria intensa attività di maestro, aveva acquisito la certezza che «il popolo ama e ricerca l’istruzione come ama e ricerca l’aria che respira»[18]. Tuttavia, la miopia dell’istituzione scolastica che, secondo lo scrittore, mortifica la personalità degli allievi, obbligandoli a rinunciare alla propria identità, «provoca necessariamente il disgusto per l’istruzione, abitua all’ipocrisia e al sotterfugio, frutti delle condizioni innaturali imposte agli allievi, e porta ad un’acquisizione confusa di quelle stesse nozioni che rientrano nell’ambito della scrittura e della lettura»[19].

La ricomposizione dell’armonia originaria, turbata da educatori che piegano gli allievi alle proprie pretese, può attuarsi solo a patto che sia garantita a ciascun bambino la libera espansione delle proprie attitudini e che non venga soffocato quel «qualcosa d’indefinibile, che sfugge al controllo del maestro, qualcosa di totalmente sconosciuto alla scienza pedagogica e che, nello stesso tempo, contribuisce al successo degli studi. E’ lo spirito della scuola»[20], che diviene operante solo allorché gli alunni si sentono parte attiva del processo di formazione. Senza darne una definizione precisa, Tolstoj qualifica lo spirito della scuola come qualcosa «che si trova sempre in rapporto inverso alla costrizione e all’ordine della scuola, in rapporto inverso all’influenza del maestro sul modo di pensare degli alunni, in rapporto diretto al numero degli alunni»[21]. L’indimostrabilità scientifica dello «spirito della scuola» è probabilmente ciò che per Tolstoj ne accresce il valore sul piano della concreta verificabilità: esistono relazioni umane che, pur non potendo essere ricondotte a schemi di comportamento o giudicate in base a norme oggettive, si impongono tuttavia per la loro evidenza e forza.

La suggestione e l’incanto degli anni d’insegnamento a Jasnaja Poljana rivivono, attraverso la mediazione della scrittura, nei Libri di lettura, complemento artistico di una esperienza di vita mai dimenticata e sempre rimpianta; Tolstoj, a distanza di anni, torna a rivolgersi ai bambini, non tra i banchi di una scuola elementare, ma attraverso le pagine di un testo su cui avrebbero studiato «due generazioni di tutti i bambini russi, dai figli dello zar ai figli dei mužiki», i quali ne avrebbero ricavato «le prime impressioni poetiche»[22]. I Libri di lettura dovevano però superare il giudizio critico di lettori che Tolstoj, sulla base delle esperienze nella scuola di Jasnaja Poljana, prevedeva sarebbero stati molto esigenti; i bambini difatti, più vicini degli adulti all’armonia originaria, intuiscono immediatamente il tono falso ed insincero di un libro, di un’esortazione, di un consiglio. Per assicurarsi il più attendibile degli imprimatur, Tolstoj, come ricorda Agostino Villa, si faceva ripetere i racconti da lui scritti o tradotti «dalla viva voce di un ragazzo di campagna, cogliendo a volo le locuzioni più vive e felici, e tenendo di mira soprattutto i punti che non lo soddisfacevano nel testo da lui preparato»[23], il che conferma come la composizione e la stesura dell’Abbecedario assorbissero tutta l’attenzione e la cura di Tolstoj, che seguì poi con trepidazione le controverse vicende legate alla pubblicazione dell’opera[24].

Per comprendere quanto del proprio animo Tolstoj abbia trasfuso nell’attività di maestro e quindi nell’opera che ne costituisce l’immagine più limpida, è fondamentale la lettura della risposta, datata 26-27 novembre 1865, alla richiesta di incoraggiamento che gli era stata rivolta da A. A. Tolstaja, in attesa di assumere l’incarico di istitutrice della granduchessa Marija Aleksandrovna, figlia di Alessandro II. Sostenendo con forza, nel rapporto educativo, la priorità del cuore sulla ragione, Tolstoj consiglia ad Alexandrine di seguire «l’istinto [...], influsso umano e appassionato [che] ha un effetto benefico, edificante sui figli degli uomini, mentre l’influsso razionale, logico ha un effetto nocivo». Secondo Tolstoj l’educazione, così come s’è storicamente affermata, è minata da un errore di fondo: tutti pretendono di educare «con la ragione, mentre tutto il resto, cioè tutto quel che è più importante, è lasciato a se stesso». Proseguendo nella dimostrazione della sua tesi, rigorosa e semplice al tempo stesso, lo scrittore giunge a conclusioni in cui si riflette l’essenza più profonda delle sue convinzioni.

 

Non possiamo ingannare i bambini, sono più intelligenti di noi. Vogliamo dimostrare loro di essere ragionevoli, ma ciò non li interessa affatto, essi vogliono sapere piuttosto se siamo onesti, giusti, buoni, compassionevoli, se abbiamo una coscienza; e sfortunatamente vedono, dietro i nostri sforzi di essere a tutti i costi infallibilmente ragionevoli, che non c’è altro[25].

 

In queste parole, così appassionate e vibranti, si avverte, al di là della determinazione, un’istanza etica molto forte; l’intelligenza diviene un mezzo per scoprire e comprendere valori come l’onestà, la sincerità, la bontà, per ammettere i propri errori e smascherare la insincerità altrui. Un’altra lettera dello stesso periodo, sempre indirizzata ad Alexandrine, prova come Tolstoj, ad alcuni anni dalla chiusura della scuola di Jasnaja Poljana, continuasse a riflettere sui temi dell’educazione, aspettando con impazienza il momento di insegnare ai propri figli e meditando di scrivere un compendio su quanto aveva appreso in campo pedagogico[26]. In effetti, i Libri di lettura, sintesi di un’esperienza educativa formatasi nel corso degli anni e di una sensibilità artistica piena e consapevole, hanno rappresentato per Tolstoj un impegnativo banco di prova sia sul piano letterario che pedagogico, come conferma un’altra lettera alla contessa Tolstaja.

 

L’inizio del mio Abbecedario è già in stampa, mentre io scrivo e amplio la fine. Solo questo Abbecedario potrebbe fornire lavoro per cento anni. Esso richiede la conoscenza della letteratura greca, indiana, araba: ci vogliono tutte le scienze naturali, l’astronomia, la fisica e un terribile lavoro sulla lingua: bisogna che tutto sia bello, succinto, semplice e soprattutto chiaro[27].

 

Nella sua analisi dei sillabari russi pubblicati a partire dal sec. XVI Daniela Liberti mostra di ritenere il contributo di Tolstoj «il coronamento di quelle ricerche ma nello stesso tempo uno stimolo per l’apertura di una fase nuova nel settore dei manuali divulgativi»[28]; la miglior conferma del carattere innovativo dell’Abbecedario è data dal fatto che ancora oggi brani dei Libri di lettura «vengono inseriti nei moderni sillabari e nelle antologie delle scuole russe e straniere, a sottolinearne la mai perduta attualità»[29].

Dovendo precisare cosa conferisca modernità ad un’opera scritta più d’un secolo fa non si potrebbe certo far riferimento ad una teoria pedagogica ispirandosi alla quale Tolstoj abbia creato il miglior abbecedario dei suoi tempi; al contrario, la vitalità dei Libri di lettura si deve proprio all’assenza di implicazioni pedagogiche che ne avrebbero inevitabilmente causato il superamento. Ciò che costituisce il valore intrinseco dell’antologia tolstoiana è l’inevitabile disegno dell’autore, che sorregge scelte ed esclusioni entrambe significative, volte a conferire un’impronta unitaria ad un’opera per comporre la quale Tolstoj «si sforzò di scoprire, raccogliere, esporre le verità eterne, di risvegliare l’interesse spontaneo, la fantasia, l’amore, la curiosità dei bambini e della gente semplice»[30]; non si comprenderebbe altrimenti come una raccolta di brani di così diversa origine abbia una tale unitarietà di tono da apparire come il risultato di un’unica volontà e di un’unica ispirazione.

D’altro canto la straordinaria coesione di un’opera che, collazionando brani di autori ed epoche diverse, ci si aspetterebbe eterogenea e un po’ dispersiva, non è certo un effetto abilmente ricercato quanto piuttosto la naturale espressione di un genio artistico la cui capacità di entrare in comunione profonda con le cose e con la vita, secondo Thomas Mann irradia «d’un succo e d’una freschezza vitale, che le fa irresistibili, le sue parole, così aride e confuse quando invece teorizzano soltanto»[31]; Mann rimprovera a Tolstoj l’asprezza di certe posizioni ideologiche intransigenti e definitive che vengono interpretate come «lo sforzo di liberarsi dalla natura, dalla spontaneità, dalla indifferenza morale, per salire allo spirito, cioè a una valutazione morale e perfino sociale»[32]. In realtà non si comprende Tolstoj separando lo scrittore dal polemista, dal momento che le posizioni critiche assunte su molti temi di etica sociale o di letteratura sono forse la conseguenza, più che l’antitesi, di un’aderenza alla realtà non soltanto proclamata ma vissuta in concreto. Se il rigore intellettuale provoca a volte irrigidimento (come nel caso della famosa stroncatura di Shakespeare), ciò forse si deve ascrivere all’intransigenza del carattere più che all’«invidia che il moralmente tormentato prova per la felicità del mondo, per l’ironia, retaggio degli spiriti assolutamente creatori»[33].

Del resto, accanirsi a ricercare nei saggi tolstoiani significati troppo reconditi può talvolta fuorviare dalla corretta comprensione di un pensiero che, nonostante la complessità e la varietà delle tematiche trattate, mantiene sempre coerenza e linearità. Per esempio, può forse sembrare troppo semplice che, come sostiene Giorgio Cerrai, Tolstoj ponga a fondamento dell’opera educativa del maestro il lavoro manuale come sintesi di ogni principio scientifico e religioso.

 

L’uomo, per Tolstoj, prescindendo da qualsivoglia religione positiva, vive singolarmente la esperienza del divino attraverso la fratellanza, l’unione con gli altri uomini, come già, analogamente, Rousseau aveva affermato il concetto di religione naturale fondata sul lume interiore del sentimento. In tale contesto è proprio il lavoro che offre, a livello pedagogico, particolari possibilità di far comprendere la validità della collaborazione nel lavoro, con la gratificazione spirituale e umana che ne consegue. Il lavoro purifica l’uomo perché ne piega l’animo e il corpo ad una legge che lo sovrasta e lo ricollega a quell’intima essenza della libertà che è lo spirito divino: solo nella produzione di cose utili agli altri e a sé, l’individuo si sentirà soddisfatto della sua natura di uomo[34].

 

La rivalutazione del lavoro manuale come mezzo di elevazione dell’anima, ideale benedettino rivissuto da Tolstoj nella pienezza del suo valore, è in fondo nient’altro che la naturale conseguenza dell’adesione morale e spirituale a quel mondo contadino in cui il messaggio di Cristo, libero dalle sedimentazioni storiche dell’ipocrisia e della ragion di stato, ha continuato a vivere nella sua originaria purezza, nonostante i tentativi operati dal potere di soggiogare la mente e il cuore degli uomini.

 

Elisa Medolla



*Articolo apparso sul n. 4 di “Slavia”, ottobre-dicembre 1998.

[1] Perfino negli ultimi anni di vita, «nelle opere, negli articoli, nei colloqui, nelle lettere, troviamo i tipici appelli tolstoiani ad allontanarsi dalla politica e allo stesso tempo un’impostazione insolitamente acuta dei problemi politici attuali [...]. Egli viveva così intensamente le sofferenze del popolo che queste divenivano sue sofferenze personali» (dalla prima parte dell’articolo di B. Meilakh Ritiro e morte di Lev Tolstoi, apparso su “Rassegna sovietica”, n. 1, 1961, pp. 18-19.).

[2] C. Baudouin, Tolstoï educateur, ed. Delachaux et Niestlé, Neuchatel-Paris, 1931, p. 31; cfr., poco più avanti, lo stesso testo, dove vien detto che «comme Descartes en philosophie, Tolstoï, en pédagogie, part du doute, et d’un doute plus profond que celui de Descartes. Le doute, dans l’un et l’autre cas, sera la source de certitudes nouvelles», p. 91.

[3] B. M. Ejhenbaum, Il giovane Tolstoj. La teoria del metodo formale, Bari, De Donato, 1968, p. 15.

[4] L. Tolstoj, Diari 1847-1910, Milano, Longanesi, 1980 (ristampa 1997 per i tipi della Garzanti), cfr. le note del 24/3/1847 («io sono molto cambiato: ma non ho ancora raggiunto quel quadro di perfezione nelle attività pratiche, che vorrei raggiungere», p. 26), 7/4/1847 («in un diario deve trovarsi una tabella delle norme, nel diario devono essere anche definiti i miei atti futuri», ibidem), 18/4/1847 («ho scritto molte norme, e volevo seguirle tutte; ma le mie forze sono troppo deboli per questo», p. 29), 8/8/1857 («sto bene e sono triste, ma la Russia mi è disgustosa, e sento che questa vita rozza e menzognera mi serra da tutte le parti», p. 153), 9/10/1859 («disordinato, bilioso, annoiato, disperato e pigro. Mi sono dedicato all’azienda, ma poco e male», p. 194); come osserva M. Pljuchanova, «un simile scavare in se stesso, con castighi e autoflagellazioni, rimarrà sino alla fine un elemento costante dell’opera di Tolstoj» (M. Colucci-R. Picchio, Storia della civiltà letteraria russa, vol. I, voce “Tolstoj” a cura di M. Pljuchanova, Torino, UTET, 1997, p. 697).

[5] L. Tolstoj, La confessione, Milano, Sugarco, 1979, pp. 32-33.

[6] Id., Diari, ed. cit.: «13-25 ottobre 1860. Hyères. Fra poco è un mese che è morto Nikolenka. Questo avvenimento mi ha terribilmente strappato dalla vita. E ancora la domanda: perché? Siamo già vicini alla partenza per là. Per dove? Per nessun posto.[...] La morte di Nikolenka è stata l’impressione più forte della mia vita», p. 198; «12 novembre 1860. E’ morto nelle sofferenze un bambino di tredici anni, di tubercolosi. Perché? L’unica spiegazione la dà la fede nella nemesi della vita futura. Se essa non c’è, allora non c’è giustizia, e non occorre la giustizia, e la richiesta di giustizia è superstizione», p. 199. Tolstoj descriverà con toccante realismo la morte di Nikolaj in alcuni capitoli di Anna Karenina, adombrando in Nikolaj Levin la figura del fratello (Anna Karenina, parte quarta, capp. XVII-XX, vol. II, pp. 544-62).

[7] M. Bernabei, Leone Tolstoj. Un’anima grande contro una scuola disumana, Milano, 1929, p. 22.

[8] L. Tolstoj, I diari 1847-1910, ed. cit.; note del 16/6/1847, p. 29.

[9] Ivi, p. 198.

[10] All’epoca Tolstoj aveva già pubblicato i Racconti di Sebastopoli e la trilogia Infanzia, Adolescenza, Giovinezza.

[11] L. Tolstoj, Le lettere, Milano, Longanesi, 1977-78, vol. I, p. 273; l’apertura della scuola risale al 1859, ma l’attività didattica si intensifica a partire dal 1861.

[12] Ibidem.

[13] Lettera dei primi di agosto 1861, dalle Lettere, ed. cit., vol. I, p. 276.

[14] Ibidem; la lettera prosegue illustrando il metodo d’insegnamento adottato nella scuola e che si può senza dubbio definire sperimentale: «la scuola consiste in tre grandi camere, una rosa e due azzurre. In una stanza c’è inoltre un museo. Sugli scaffali lungo le pareti sono disposti pietre, farfalle, scheletri, erbe, fiori, strumenti fisici eccetera. La domenica il museo è aperto a tutti, e il tedesco di Jena fa degli esperimenti. Una volta la settimana c’è la lezione di botanica e noi tutti andiamo nel bosco a cercare i fiori, le erbe e i funghi. Ci sono quattro lezioni di canto la settimana, sei di disegno e tutte sono fatte molto bene. L’agrimensura va così bene, che i ragazzi vengono già chiamati dai mužiki»; erbe, fiori, animali, semplici fenomeni fisici saranno tra gli argomenti trattati con maggior ampiezza nei Libri di lettura.

[15] Nel 1876, in una lettera datata 29 febbraio/1marzo, indirizzata al principe Lvov, Tolstoj, lamentando la cattiva accoglienza, di pubblico e di critica, riservata fino ad allora all’Abbecedario e ai Libri di lettura, difenderà con forza stile e contenuti dell’opera, legittimati dalla profonda conoscenza del modo di sentire e di esprimersi dei bambini: «so come pensa il popolo e il bambino del popolo e so come parlare con lui; e questo sapere non mi è caduto dal cielo perché ho un talento (la parola più stupida, più assurda), bensì perché ho acquisito questo sapere con amore e con fatica» (Le lettere, ed. cit., vol. II, p. 14).

[16] L. Tolstoj, La scuola di Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, a cura di U. Zandrino, Bergamo, Minerva Italica, 1965, p. 60.

[17] Ibidem.

[18] L. Tolstoj, L’istruzione pubblica, in Scritti pedagogici, a cura di G. Santomauro, Bari, Adriatica, 1972, p. 25.

[19] Ivi, pp. 34-35.

[20] La scuola di Jasnaja Poljana in novembre e dicembre, ed. cit., p. 97.

[21] Ibidem.

[22] Le lettere, ed. cit., vol. I, p. 378.

[23] Introduzione ai Quattro libri di lettura, Torino, Einaudi 1964, p. XVIII.

[24] Un resoconto dettagliato delle disavventure editoriali dell’Abbecedario si trova nella nota introduttiva di Agostino Villa all’edizione Einaudi dei Libri di lettura, recentemente ristampata; mi limiterò, in questo luogo, a riassumerne i passaggi più significativi. Dopo l’insuccesso dell’edizione del 1872, causato anche dal fatto che come manuale scolastico l’Abbecedario non aveva avuto l’approvazione del Ministero della Pubblica istruzione, Tolstoj predispose nel 1874 una nuova edizione, accolta anch’essa poco favorevolmente sia dal pubblico che dalla critica. Nel novembre del 1875 una profonda revisione dell’Abbecedario vide la luce sotto il titolo di Nuovo Abbecedario. Come ricorda Villa, «in questa redazione, i testi di lettura furono separati dall’abbecedario propriamente detto, e raccolti in quattro Libri di lettura, con ritocchi importanti e notevole arricchimento di materiale, mentre una dozzina dei vecchi racconti venivano esclusi (p. XXIV).

[25] Le lettere, ed. cit., vol. I, pp. 341-42; secondo Rosetta Finazzi Sartor, Tolstoj «distingue due tipi di conoscenza, la conoscenza per mezzo della ragione (Znanie razouma) alla quale è contrapposta la conoscenza per mezzo del cuore (Znanie serdlsa)» (R. Finazzi Sartor, Tolstoj maestro nella scuola di Jasnaja Poliana, in “Rassegna di pedagogia”, n. 1, 1965, p. 22).

[26] Lettera del 14/11/1865 a A. A. Tolstaja, ed. cit., vol. I, p. 337.

[27] Lettera del 6-8(?)/4/1872 a A. A. Tolstaja, ivi, p. 384.

[28] D. Liberti, I sillabari russi, in “Slavia”, n. 2, 1993, p. 157.

[29] Ibidem.

[30] I. Berlin, Tolstoi e l’educazione del popolo, in “Tempo presente”, settembre-ottobre 1960, p. 636.

[31] T. Mann, Goethe e Tolstoi, in Nobiltà dello spirito, saggi critici, Milano, Mondadori, 1953, p. 39.

[32] Ivi, p. 36.

[33] Ibidem.

[34] G. Cerrai, Aspetti della pedagogia libertaria in Leone Tolstoj, in “Rassegna sovietica”, settembre-ottobre 1989, pp. 149-50.