Nicola Siciliani de Cumis

 

Il principio “dialogico” in  Antonio Labriola                                                                                                                                                                                                                                                 

 

 

                                                      

                                                 

                                                                                          Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate, che

                                                                                    fu molto lodato dallo Zeller, e son sempre un po’ socratico   

                                                                                    nella mia vocazione.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

                                                                                          “Come fareste ad educare moralmente un papuano?”                                                                                          

                                                                                    […] “Provvisoriamente lo farei schiavo; e  questa sarebbe                          

                                                                                    la  pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e

                                                                                    pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della

                                                                                    pedagogia  nostra”.

                                                                                                                                                Antonio Labriola                                                       

 

 

 

 

       Labriola, il “socratico”

 

        Nel rifarmi a quanto accennavo ieri, può forse servire riandare ai “principi” (agli inizi e ai presupposti ideali) dello Homo homini magister, per così dire, per noi. Il riandare cioè alle ragioni culturali remote del nostro stesso modo di essere, in quanto insegnanti nel contesto che ci concerne… Per arrivare quindi, “per li rami”, al tema dell’“uomo maestro per l’altro uomo”: un tema che, nello specifico, non solo non è nuovo nell’attività pedagogica universitaria romana da centotrenta anni a questa parte, ma che addirittura la connota all’origine, da un secolo all’altro, mediante il magistero di Antonio Labriola, dal 1874 al 1904, come docente di Filosofia morale e pedagogia, di Filosofia della storia e, infine, di Filosofia teoretica[1].

      Da un secolo all’altro, che è proprio il titolo dell’estremo e più drammaticamente dialogico dei Saggi labrioliani sulla concezione materialistica della storia: il cosiddetto “quarto saggio”, progettato al culmine di una straordinaria carriera di docente e di studioso. Un impegno di ricerca e didattico, tuttavia, che il Labriola non riuscirà a condurre a termine, a causa del cancro che lo aveva colpito alla laringe- «organo pedagogico» (come  diceva), e di cui morrà.

      Il male gli consentirà tuttavia, per un certo tempo, di far lezione mediante  gli strumenti didattici possibili nelle sue condizioni:  gli appunti, che il professore faceva leggere ai suoi stessi studenti; i messaggi scritti, che trasmetteva loro per farsi intendere; la mimica del buon meridionale “fine dicitore”, descritto una volta da un biografo come “omnimoventesi”… La didattica, insomma, di un autore comunicativo a trecentosessanta gradi, che conclude il suo discorso dialogico, ragionando del “dialogo” tra i secoli, in particolare del Settecento con l’Ottocento, e volgendo lo sguardo ben oltre il secolo XIX, nel Novecento.                                                               

      Il “quarto saggio”: che fornisce pertanto un’analisi teorico-pratica coincidente con le lezioni degli ultimi corsi universitari del Labriola. Il quale aveva appena pubblicato come “terzo saggio”, tra il 1897 e il 1898, un’opera anch’essa apertamente dialogica fin nel titolo, Discorrendo di socialismo e di filosofia: e dialogica, a maggior ragione, alla luce della contemporanea prolusione inaugurale sull’Università e la libertà della scienza, apertamente colloquiale  con gli studenti della “Sapienza” romana fin de siècle. 

       Il Labriola, d’altra parte, che affida la propria verve maieutica, oltre che alla sua caratteristica oralità, ad un imponente epistolario pubblico e privato e ad una notevole quantità di conferenze, dibattiti, interventi giornalistici, prolusioni, prefazioni, interviste, conversazioni, dichiarazioni. E che, così facendo, finisce col richiamarsi ora implicitamente ora per esplicito al suo Socrate, sottolineando a chiare lettere la propria vocazione dialogica.

       Una vocazione, che all’alba del Novecento, se da un lato  porta Labriola a trattare filosoficamente e politicamente del mondo avvenire e a cogliere la morfologia dei processi di relativa globalizzazione allora in atto, da un altro lato lo induce a riproporsi nei rapporti con gli altri nella sua dialogicità primigenia, permanente, dichiaratamente “socratica”. Come fa, per esempio, con Friedrich Engels: «Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate, che fu molto lodato dallo Zeller, e son sempre un po’ socratico nella mia vocazione!»[2].  

        Difatti si sa che  Labriola  provasse volentieri ad esercitare la sua  maieutica con familiari e scolari, operai, sartine, tipografi,  poeti dialettali, preti, insegnanti e personalità intellettuali di ogni genere, amici e nemici, circoli culturali, redazioni di riviste e giornali, organizzazioni  sociali, partiti politici, ecc. E sono noti i riconoscimenti in tal senso, da parte di allievi, uditori, corrispondenti (cito solo il casi di Benedetto Croce, Romolo Murri, Padre Semeria, Ettore Romagnoli, Ernesto Buonaiuti).    

        Così non è un caso che, stando al racconto di alcuni suoi scolari, Labriola arrivi a scorgere in Socrate, nel Socrate “genetico” dei suoi primi passi di ricercatore, l’atto di nascita dell’attività educativa come fatto scientifico, e dunque il τì  ̉εστι dello homo homini  magister:

 

       Ad un certo punto dello sviluppo umano questa educazione, preesistente come fatto e già ridotta ad un’arte empirica, comincia a diventare oggetto di una discussione scientifica, come, per esempio, accadde per la prima volta in Grecia al tempo dei Sofisti e di Socrate. Allora nascono dei problemi come questi: L’uomo è educabile ad arte? Entro quali limiti l’educazione è possibile? Quale ne è il fine? Quali ne sono i mezzi e i gradi?  Da questo momento comincia la storia della pedagogica come tentativo di completare, correggere, sviluppare e sistematizzare l’arte pratica dell’educazione[3].

    

      Di qui il motivo iniziale dell’interesse di Labriola per Socrate: un interesse, che stimola a considerare il Socrate oggetto della trattazione, alla luce della “rosa” degli elementi dialogici caratterizzanti soggettivamente lo stesso ragionamento labrioliano. Nel senso che, da un lato, c’è  un “dialogo socratico” veicolato da Platone, Aristotele, Senofonte (e da tutti gli altri autori, antichi e recenti, che Labriola interpella variamente nella sua monografia); da un altro lato, al di là della dialogicità di Socrate veicolata dalla tradizione e filtrata tecnicamente da Labriola, compaiono le peculiari concettualizzazioni dialogiche di quest’ultimo: ciò che, in un certo senso, potremmo definire la sua ideologia dialogica, il suo proclamato socratismo.

     Il che non toglie, tuttavia, che siffatto socratismo abbia alcuni limiti precisi. Limiti dettati dalla storia complessiva degli accadimenti e dunque specificamente, secondo Labriola, dalla storia dell’educazione e della scienza pedagogica: dal fatto cioè che, occorre pur sempre fare storicamente i conti con i ritmi (e la lentezza e i ritardi e gli impedimenti) imposti dalle leggi di sviluppo, genesi e formazione e dall’evoluzione naturale dei  processi educativi.

     I conti, con la “praticità”, l’“attuabilità” ed insieme con le “difficoltà” e “impossibilità” formative, dipendenti dall’insieme delle regole psicologiche e pedagogiche imposte dalla forma storica dei processi educativi in atto e quindi dai condizionamenti derivanti dalle leggi di  sviluppo, genesi e formazione di ciascun ipotetico  momento dialogico (con se stessi, prima che con gli altri).

 

 

    Il  “Socrate”  inesistente

 

     In altri termini, è lo stesso autobiografismo metodologico (mono-dialogico) che è proprio di Labriola fin dalla giovinezza, a stabilire tecnicamente, per analogia e per differenza, la prima caratteristica “storica” dell’azione del magister Socrate. E’ la modalità pedagogica d’abbrivio, a decidere della peculiarità e dell’entità dialogica del “nuovo”: 

 

      Imparare a leggere, a recitare poi a memoria le sentenze degli antichi poeti; assuefarsi alla modulazione ed al  canto, ch’era destinato a formare nell’animo il senso dell’armonia; esercitare il corpo con la ginnastica, per isviluppare con la regolarità dei movimenti l’accordo dell’esterno con l’interno, ed il senso dell’euritmo; in questi tre capi consisteva l’educazione dell’Ateniese[4].

 

     E l’educazione di Socrate, secondo le testimonianze. E, d’altro canto, è la stessa  modalità filologica esercitata da parte sua da Labriola scrivendo di Socrate (oggettivamente deprivata a monte,  a partire dalle “opere” dell’autore, che non esistono), a creare le condizioni dell’interferenza dialogica labrioliana nel processo di ricostruzione storiografica, e, di conseguenza, il presupposto di una qualche sovrapposizione di personalità congeniali:

 

E, facendo la propria educazione, Socrate era divenuto educatore […] questo curioso fenomeno di Socrate che educa educandosi, e nell’atto che è incerto di tutto, mediante l’analisi della propria incertezza, produce per sé e per gli altri il criterio della convinzione […]. Non fu filosofo di mestiere, ma certamente pedagogo, anzi, come Aristofane lo chiamava a quel tempo, ψυχαγωγός;  e facendo della sua vita un problema educativo, con l’educare sé medesimo e gli altri al tempo stesso, mentre poneva termine al dilettantismo sofistico, impedì che la filosofia tornasse ad essere mera ricerca dei fenomeni naturali[5].

 

     Proprio Labriola, altrove (anche per questo riferimento polemico al dilettantismo sofistico e alla mera ricerca dei fenomeni naturali), autorizza l’accostamento dell’esperienza dialogica di Socrate nell’Atene del V secolo a. C., alla sua propria analoga  esperienza di uomo dell’Ottocento, quando, nel quadro di una riflessione sul concetto del lecito, così scrive (all’inizio degli anni Settanta):

 

     Un Socrate che miracolosamente redivivo andasse attorno per le case altrui e per le pubbliche vie invaso della curiosità d’intendere come e in che misura gli uomini abbiano coscienza di quel che si fanno e sappiano darne contezza in concetti chiari e precisi non troverebbe quelli del giorno d’oggi gran fatto progrediti in confronto dei contemporanei suoi, con questa notevole differenza, a svantaggio dei presenti, che i suoi contemporanei  erano come per la prima volta usciti dal grembo della natura e non s’erano elevati fino ai concetti, e gli uomini di oggi sono invasi da un malanno nuovo, quale quello che rincalza la sofistica della vuota riflessione nell’entusiasmo di una ribellione autoritativa come la prepotenza cui si ribella. Quando si dice: questo è lecito: quello è permesso: questo si può fare: quello non è vietato: e la coscienza si appaga di coteste definizioni, è segno certo che la catechistica l’aveva già divezza dal far uso dei propri criterî[6].

 

     Il Socrate magister, che Labriola viene pertanto definendo grado a grado, è tale cioè, soprattutto in quanto si rapporta agli altri e dialoga (indirettamente) con gli altri, Labriola compreso: perché chi gli sta di fronte (l’interlocutore di turno), per apprendere alcunché da lui  (maestro sui generis), consente a Labriola medesimo di apprendere  ciò che Socrate  riuscirà ad insegnargli. Meglio, ciò che Labriola, nel monologo con lui, domanderà  di imparare. In funzione del “dialogo”.

     In questo senso, il momento dell’apprendimento, dal punto di vista del “maestro” socratico delineato da Labriola, precede l’insegnamento di Socrate e nondimeno segue ad esso. E’ insieme, causa ed effetto:  la prova della indispensabilità tecnica del dialogo, come procedura costitutiva di qualsiasi apprendimento-insegnamento proprio ed altrui. Ed al tempo stesso la prova della sua impossibilità. Socrate non esisteva prima, smetterà di esistere dopo.

     Tuttavia, spiega Labriola in Della Libertà Morale (nel 1873), ancora con riferimento alla propria “socratica” quotidianità e a se stesso, diresti, come di un discepolo di  Socrate di cui il Maestro inesistente avrebbe potuto fidarsi:

 

 l’educazione sta all’uomo reale, come ogni  ideale sta al reale: questo vi si avvicina, non lo  raggiunge mai. E gli uomini di fatti la licenza di tenersi per tali se la pigliano spesso da sé, senza avere alcuna considerazione alla capacità loro: ed oggi così, come due migliaia d’anni fa, Socrate potrebbe tenersi pago, di non trovare che pochi pochissimi discepoli e fidi amici, ai quali la sua massima: che tanto l’uomo vale quanto egli sa, andasse a sangue e non ribellasse la vanità e la prosunzione[7].  

 

     Da un lato cioè, ai primordi della storia dell’etica, Socrate ha inventato il dialogo, come strumento utile ad attingere le «intellezioni etiche» e a rettificare

 

il concetto dei fini pratici della vita degli individui nei quali s’imbatteva, e dei criterî coi quali essi giudicavano di cotesti fini e dei modi di raggiungerli; e riassumere poi il risultamento della disamina in una definizione chiara, le cui note erano state raccolte via via nel dialogo stesso[8].

 

Da un altro lato  Labriola, dopo duemila anni,  continua a ritenere attuale la domanda:

 

Ma non è forse vero che gli uomini, nelle risoluzioni concrete, si conducono spesso in opposizione del risultato stesso della riflessione, e fanno appunto il contrario di quello che dovrebbero?[9]

 

E risponde:

 

Questo c’è: ed è noto come Socrate riferisse  indistintamente al concetto dell’ignoranza tutta quella somma di volizioni che noi chiamiamo cattive: o fosse poi costretto a ricorrere ad alcuni dati puramente empirici nel determinare il concetto pratico della virtù[10].

  

    Di qui il magister (il Socrate di Labriola), che deve mettersi alla prova, in quanto magister, nella misura in cui costruisce dialogicamente le competenze che gli appartengono in quanto “maestro”: quella che deriva dal motivo psicologico e antropologico; quella che viene indotta dal sociale e dall’etico-politico; quell’altra relativa al metodo; quell’altra ancora concernente i contenuti. Per rendersene conto, basta seguire le analisi labrioliane sui Socrate della tradizione, alla luce delle idee pedagogiche  generali dello stesso Labriola. Idee veicolate, anche e soprattutto, per le vie peculiari  del suo insegnamento.  

     Sembra difatti esserci una precisa corrispondenza, che potrebbe dirsi in certo qual modo dialogica, tra l’“enciclopedia pedagogica” veicolata  dal Labriola alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, con riferimento alla formazione di Socrate (il Socrate che viene formandosi dall’incontro con gli altri, il Socrate che viene a sua volta formando chi l’incontra), e l’“enciclopedia pedagogica” labrioliana rappresentata nelle sue componenti scientifiche ed educative dagli allievi di Labriola, tra Otto e Novecento. Componenti scientifico-educative così descritte, a partire dalla psicologia:

 

Quali sono? Innanzi tutto, la psicologia, intesa nel senso lato della parola. Se l’educazione è il tentativo pratico di  dare materia ed indirizzo alla naturale evoluzione, è chiaro che la regola di ogni operazione pedagogica dipenderà dalla conoscenza delle leggi psicologiche; non solo perché la conoscenza di tali leggi, che sono tutte leggi di sviluppo, di genesi, di formazione, ci dà anche il limite  dell’attività pedagogica, ma altresì perché la formazione, pur avendo possibilità varie di modalità e di accomodazione, ha schemi e confini valicabili[11]. 

 

    In secondo luogo, l’antropologia e la psico-fisica:

 

Come corollario delle cose dette sulla psicologia, si deve indicare l’importanza speciale dell’antropologia e della psico-fisica, cioè delle discipline che hanno per oggetto il terreno sottostante all’attività psichica propriamente detta, o il terreno su cui l’attività fisica e psichica si confondono[12].

 

    In terzo luogo, l’etica:

 

Se la psicologia, nel senso lato della parola, col corollario dell’antropologia e della psico-fisica, ci dà la conoscenza del subbietto su cui cade l’azione educativa, questa ripete la coscienza della sua finalità dal concetto della perfettibilità umana, ossia dall’etica. Perciò restando problema di pura tecnica educativa la scelta, la prova e l’esperimento dei mezzi, la pedagogica, nel segnare ed assegnare il fine ultimo delle sue operazioni, deve presupporre una concezione assodata del fine morale della vita.

 

    Tuttavia, in quarto luogo, la sociologia, la politica e l’amministrazione:

 

E, perché la vita non è individuale soltanto, ma sociale, e non sociale per accidente o per caso, perché la società è terreno e condizione dello sviluppo individuale, così il rapporto della pedagogica con l’etica ci porta a stabilire anche il rapporto fra la pedagogica stessa e la sociologia. Quest’ultimo rapporto può poi specificarsi in quello della pedagogica con la politica e con l’amministrazione, quando non si tratti più del concetto puramente filosofico della pedagogica, ma si tratti, poniamo, dell’ordinamento, pratico della scuola.

 

     Infine, l’arte dell’educazione, la tecnica educativa:

 

che poggia immediatamente sul principio che non è possibile «identificare la vita e l’educazione» e che non vanno perdute di vista «tutte le differenze che corrono tra l’arte di educare intenzionalmente e tutti gli altri modi di apprendere e svilupparsi». Di modo che:

 

     Tornando perciò sul dato antropo-psicologico delle condizioni che sono proprie dell’infanzia e della gioventù, bisogna riconoscere che solo ad esse si può riconnettere l’arte dell’educazione, per le due principali ragioni, che questo è, per l’uomo, il periodo della vera e propria formazione e che a questo periodo subentra naturalmente l’esercizio autonomo della personalità, il quale esercizio, come suppone che l’educazione intenzionale sia già finita, così esclude che si possa o cominciare o continuare in seguito. Per tale ragionamento rimane fissato il campo della vita nel quale può esercitarsi l’arte educativa e che costituisce, in conseguenza, il limite della disciplina pedagogica[13].

 

 Insomma,

 

se la concezione genetica delle funzioni dello spirito ci fornisce la norma teorica per enunciare che, essendo l’uomo il prodotto di una formazione, esso può essere, per questa ragione appunto, oggetto di una formazione ad arte; per la stessa ragione psicologica che dà il sostrato o il subbietto all’educazione, rimane fissato il limite di questa[14].  

 

    Sono infatti le «condizioni della coltura ateniese» e lo stesso «risultato esclusivo cui pervenne Socrate con le sue ricerche» a costituire «un’antitesi così pronunziata» di Socrate verso il proprio mondo e verso tutti gli altri, che «rimane sempre vero quello che si è detto ripetutamente di lui, esser egli stato maestro a sé medesimo»[15]: di modo che la caratteristica dialogica di Socrate presenta storicamente e culturalmente i limiti della sua stessa novità, i limiti della non-intenzionalità teoretica della proposta, quindi i limiti che derivano dalle esigenze pratiche, puramente soggettive, personali, di essa e i limiti, dunque, provenienti dal contrasto con il senso comune e con l’etica circostanti.

    Scrive quindi Labriola: 

 

      Questo nuovo interesse e questa  nuova maniera di filosofare non apparisce in Socrate come qualcosa di teoreticamente intenzionale, ma deriva intimamente dai suoi bisogni etici e religiosi, ed è il risultato di un esame che egli  ha esercitato su sé medesimo, fino al punto di obbiettivare in una intuizione etica dell’universo le esigenze dell’animo suo. Questo lavoro egli ha dovuto compierlo reagendo continuamente contro tutte le tendenze opposte e divergenti dei contemporanei  […]  quello che noi troviamo di filosofico in lui, è stato, non il risultato di un’indagine più o meno teoretica e dottrinale, ma un bisogno personale che si è fatto dottrina[16].

 

      In questo senso, le istanze etico-pratiche di Socrate rappresentate da Labriola nascono da una spinta psicologica e morale, che non è innanzitutto “dialogica” ma  monologica. Una spinta, derivante da una duplice emergenza: che, per la pars destruens, suppone la perdita (il danno?) di qualunque certezza comune e la cessazione di qualsiasi possibilità di accordo fra uomini; per la pars construens, ammette l’insorgenza (il vantaggio?) di domande alle quali rispondere intanto individualmente, e solo  in seguito tra individui.

      Perché i «presupposti storici e psicologici» del comune sentire ed operare, che Labriola indica innanzi tutto, sono «le leggi del meccanismo psichico» e «l’interesse individuale della propria conservazione»[17]. Leggi psicologiche e interesse conservativo che non sembrano andare al di là degli automatismi involontari, al di là delle attività di rappresentazione e dell’espressione di un sentire immediato. E si tratta di abilità elementari che vengono quindi alterate ad opera del contesto culturale, in virtù della necessaria reiterazione di comportamenti e disponendo di tutto il tempo che serve.  

      Spiega infatti Labriola:

 

       L’immagine della vita, che mercè la percezione e la incosciente riflessione si forma e si sviluppa nella coscienza comune ed incolta, consiste in una mutabile e perpetua vicenda di rappresentazioni e sentimenti, su la quale le leggi del meccanismo psichico esercitano il loro assoluto ed esclusivo dominio. Solo l’interesse individuale della propria conservazione  e la ripetizione di certi atti abituali possono imprimere nell’insieme delle rappresentazioni, che sono successivamente presenti alla coscienza, degli impulsi per certe direzioni costanti; mercé i quali si stabilisce il predominio di alcuni elementi della vita psichica su tutti gli altri, ed in conseguenza di questo predominio, essa si costituisce in tutte le sue specificazioni, come carattere, costume ed abito[18].

 

      E continua:

 

 Nella sfera della valutazione, questa costanza assume la forma  di opinione, e viene espressa come giudizio tradizionale di una classe, di una casta o di un popolo. Questa opinione tanto più è parziale, ostinata ed esclusiva, in quanto che, poggiandosi sul meccanismo naturale della vita psichica, non ammette la libera scelta dell’individuo, e non lascia a tutti gli elementi dell’anima il campo libero per coadiuvarsi e fortificarsi. La coscienza dell’individuo, in questo primo e più semplice stato della vita psichica, obbiettivando imperfettamente, riesce a considerare come qualcosa di esterno e di assolutamente immodificabile il limite intrinseco della propria attività, e confondendo le proprie condizioni con quelle della natura, naturalizza sé stessa nel mito, nella parola tradizionale e nel costume[19]. 

 

      E’ questa, in altre parole, un’età primitiva, che si esprime con mezzi primitivi. Un’età che non viene superata, dimenticata mai del tutto negli avanzamenti culturali delle età successive; e che, nella sua processualità complessa, lenta, per essere scalfita e modificata, abbisogna di assiduità, continuità e di tutto il tempo necessario. Non poco, magari  secoli:

 

       Questo stato primitivo della coscienza umana, sebbene corrisponda all’epoca della prima formazione della società, si continua e perpetua anche nei periodi posteriori  della storia, perché acquista un carattere sostanziale nei costumi e ferma la sue espressone nei miti e nella poesia primitiva. Il sorgere successivo ed il lento sviluppo della riflessione, che sono determinati da cause molto complesse, e varie secondo gl’individui, non riescono ad escludere tutto ad un tratto le diverse manifestazioni di quella coscienza primitiva ed irriflessa; e la trasformazione degli antichi elementi, in concetti, coscientemente appresi e pensati, non avviene che per la via d’un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante, secolare[20].      

 

      Di qui (in questo convergere delle emergenze del “vecchio” e del “nuovo”, che è tutt’altro che pacifico e che semmai risulta intimamente conflittuale), l’importanza non solo tecnica ma anche strategica (storico-sociale ed etico-politica) della lingua, come luogo naturale della conservazione e delle possibili innovazioni culturali, comunicative, dialogiche. Della lingua, come primo laboratorio della morale e, per l’appunto, mediante «la via d’un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante e secolare»[21].

      Infatti, prosegue  Labriola:

 

     Questo processo di trasformazione non ha luogo solo per l’azione  di quei motivi intrinseci di esame e di critica, che possono dirsi teoretici; ma emerge necessariamente dalle collisioni pratiche fra la volontà dell’individuo e l’opinione tradizionale espressa nel costume; e, più tardi assume il carattere d’una lotta sociale fra classe e classe, individuo e individuo[22].

 

     Ed è un processo che vede, da un lato, l’eclissi dei “valori comuni” e di conseguenza la negazione di qualsiasi possibilità di dialogo (l’emergenza-incomunicabilità); da un altro lato, il bisogno individuale di indagine, l’affermazione dell’istanza interrogativa e l’esigenza della comunicazione interindividuale (l’emergenza mono-dialogica).

     Soggiunge quindi Labriola:

 

     Ma quando gli uomini hanno cessato di trovarsi istintivamente d’accordo in quello che deva chiamarsi giusto, virtuoso, onesto, lecito, santo, empio etc. e che [sic] hanno perduta la fede in quei tipi astratti del mito e della leggenda, nei quali la fantasia primitiva avea espresso ed ipostatato i comuni criterî della valutazione morale, allora sorge necessariamente nell’individuo il bisogno di rifarsi da sé quella certezza, che prima avea nell’acquiescenza in un criterio comune e naturale, e dice  τì  ε̉στι[23]. 

 

    E ancora dopo:

  

    Le relazioni etiche, gli affetti dell’animo, le passioni, i giudizi morali passano successivamente per una serie di determinazioni sempre più profonde, e più ricche, finché la divergenza dei criterî individuali non arriva a suscitare il bisogno dell’indagine, dell’esame, e della critica, e ad esigere che la ricerca ristabilisca coscientemente, nella forma riflessa del sapere scientifico, il criterio della certezza[24].

 

    Ed è ciò che vale sia sul piano della qualità, sia su quello della quantità. Giacché, se per un verso stabilisce le infinite potenzialità del dialogo, comporta per un altro verso un insieme di difficoltà ed un intreccio di dubbi, limitazioni, impossibilità:

 

     E qui bisogna che l’interrogazione si moltiplichi, e divenga tante domande, per quante sono le rappresentazioni addotte a chiarire, e ad esemplificare il concetto che si cerca. Questa nuova esigenza porta con sé un allargamento dell’indagine, e un apparente allontanarsi dalla quistione primieramente proposta. Il dialogo s’impiglia in molte e svariate difficoltà, una certa inquietezza s’impadronisce degl’interlocutori; il risultato diviene incerto, e si è quasi ad un passo dall’eristica ed antilogistica dei Sofisti[25].

 

    Di più, è Socrate stesso (e lo è  Labriola, a sua immagine e somiglianza) a stabilire  le regole di un crescendo di difficoltà dialogiche:

 

ed a renderle invincibili, Socrate confessa la propria ignoranza; e nella piena coscienza dell’altrui presunzione ed insufficienza manifesta uno dei tratti più notevoli della sua natura, l’ironia. Il filosofo  in fatti non può, in quella condizione in cui s’è messo, non confessare la propria ignoranza, perché il suo sapere è pura esigenza, o meglio consiste solamente nella coscienza dell’attuale incertezza. Quello che egli cerca deve ancora trovarlo; né basta che l’abbia ottenuto una volta, perché lo formuli in una maniera generale, e lo tenga in serbo per mostrarlo a quando a quando. Il motivo dialogico, che è il solo movente della questione, varia secondo le occasioni, e porta l’indagine sopra oggetti ed argomenti sempre diversi; sicché si tratta sempre di eccitare nuovamente il bisogno dell’aporia, perché questa invogli alla ricerca, e fissi implicitamente la natura del processo[26].

 

    E continua:

 

E di qui procede ancora, che Socrate, non avendo una notizia anticipata di quello che cerca, e mettendo in opera la sua attività formale sempre nei limiti precisi e determinanti di un dialogo, comincia dall’ammettere negli altri una piena scienza di quello che si cerca, e [o] dalla loro confessione che nulla sappiano, o dall’incertezza con la quale pronunziano le loro opinioni, è indotto all’ironia, che in lui assumeva la forma costante di un abito filosofico[27].

 

    Il dialogo socratico, quindi, nelle sue caratteristiche e nei suoi limiti storici (rispetto a Platone), si qualifica

 

mediante  il movimento ascensivo o epagogico della incertezza delle opinioni comuni, a quella costanza ed evidenza di affermazioni, che risulta dall’esaurire tutte le  comuni accettazioni della parola in quistione.  […]  Ma come l’attività socratica non riuscì mai ad isolare il formalismo logico dalle condizioni reali in cui s’era sviluppato, così l’interesse dialogico dell’induzione e della definizione non si manifestò che in una forma concreta ed occasionale, come bisogno etico e pedagogico: e non potette, per questa ragione appunto, obbiettivarsi in un’ipotesi metafisica. Nulladimeno, per quanto il concetto socratico sia lontano da ogni idea metafisica, non può sconoscersi che esso sia stato il primo motivo, e la prossima occasione delle idee platoniche[28]. 

 

     E qui Labriola tiene a far presenti alcune circostanze e caratteristiche del proprio lavoro di ricostruzione del dialogo socratico, che vale la pena di avere presenti. Sia per gli espliciti riferimenti alle fonti, sia per ciò che, vi aggiunge di proprio e di nuovo, quasi interagendo con esse.

      Se l’esposizione labrioliana del metodo socratico è per un verso, secondo lo stesso Labriola, «attinta genuinamente dallo schema generico del dialogo senofonteo e platonico», per un altro verso, «è stata ravvivata da una indagine genetica dell’aporia e dell’interrogazione sospensiva»[29].  Il che può essere avvenuto anche, oltre che per le  vie filologiche, per quelle autobiografiche tipiche del Labriola magister.   

      Se Senofonte e Platone, poi, hanno per Labriola «lo stesso valore, quando si tratta di assegnare il carattere formale solamente» del dialogo, non lo hanno in tema di «conclusioni positive del dialogo socratico», perché «solo nella diversità di queste è riposta la novità del platonismo, che cercava di ricavare dall’induzione l’assolutezza ed il carattere incondizionale delle idee»[30].

     Occorre cioè evitare  -  spiega Labriola  -  «la posizione erronea di coloro che, prendendo le mosse dal concetto astratto del metodo, hanno poi cercato di applicarlo alla investigazione del dialogo socratico»[31]. Perché c’è una irripetibilità della propria condizione di maestro, che tende a coincidere con le specifiche sue esperienze dialogiche. Né più né meno.

    Il che significa che il Socrate magister, secondo Labriola, va considerato nella sua singolare concretezza investigativa e dialogica. Vuol dire che, quello di Socrate, è  un tentativo educativo di tipo immediatamente “pratico”, fondato sull’«assoluta identità del sapere col volere»[32]. Un tentativo del lì e dell’allora, nello spazio e nel tempo, che appartenne storicamente a Socrate.

     Il tentativo, tuttavia, di una traduzione dell’attività pedagogica,  svolta da Socrate per l’innanzi su «sé medesimo», in «quel lavoro di esame, che posteriormente consigliava  agli altri»[33]. Ma che non sarebbe potuto andare al di là dei limiti di questa dimensione  interpersonale, in senso stretto dialogica; e che non avrebbe mai potuto coincidere con le «faccende dello Stato», nelle quali Socrate si sentiva incapace[34]. 

     Di qui un’ulteriore caratterizzazione tecnica ed etico-politico-pedagogica, del dialogo socratico, nella chiave labrioliana che interessa:

 

Il  bisogno di accertare e chiarire il fine della propria opera, e di acquistare una notizia sicura ed infallibile dei mezzi da applicarvi, era divenuto a lungo andare un impulso all’indagine, su i mezzi di che gli altri facevano uso nell’esercizio delle proprie facoltà […]. Ma, come l’esigenza della ricerca non ammette dei risultati improvvisati, o imposti semplicemente dall’autorità, egli era continuamente inteso a riprendere la quistione nei suoi primi elementi, tutte le volte che l’occasione gli offrisse materia a discutere di questa o quella capacità e virtù[35].

 

     Perché, in conclusione:

 

     La consapevolezza della propria capacità o incapacità era la meta cui Socrate volea condurre i suoi interlocutori; e se poniamo mente alla notevole circostanza, che la più parte dei suoi discorsi cadeano o sopra la scelta di una via a seguire, o sul  giudizio a portarsi sopra un’azione compiuta, sopra cose insomma che riguardavano immediatamente il benessere dei suoi interlocutori, s’intende bene come la certezza logica che ne emergeva, per la sua novità, e per la sua pratica occasione dovesse produrre un’impressione molto superiore a quella che altri ha voluto scorgere nel dialogo senofonteo. E questa attività pedagogica era a quel tempo qualcosa di affatto nuovo, e la sua influenza, presa intensivamente, era di gran lunga superiore a tutto quello che noi generalmente intendiamo per riforma educativa[36].

 

      Da questo punto di vista, il limite dialogico delle  «personali convinzioni» sembra coincidere con il valore dell’estensione filosofica  dell’attività pedagogica di Socrate, e dunque nel suo metodo: «che consiste nel principio e nella certezza della dimostrazione dialogica, mediante la vittoria sulla contradizione», nella «vita che diviene ricerca», nella «rettificazione dialettica dei concetti», in una «coscienza intimamente morale e religiosa», e dunque «nel reale convincimento, che la conformità delle azioni ai concetti, e della pratica alla coscienza, costituisca lo stato dell’umana perfezione»[37]. In tal senso, «Il bene è quindi l’utile»[38], anche se in un modo del tutto particolare. Perché questa

 

determinazione non è sintetica, come se il filosofo pronunziasse un giudizio, che deva stabilire un’eguaglianza fra due concetti già distinti dalla coscienza, e precedentemente appresi nella loro opposizione, ma è invece analitica, perché esprime nella forma logica di un giudizio la più semplice ed elementare distinzione di quel processo psichico che costituisce la coscienza del bene; e la genesi di quei due termini, che infine si covrono e spiegano vicendevolmente, è affatto determinata dalle condizioni pratiche e personali del problema[39].

 

      Ciò che più conta infatti, per il Socrate di Labriola, è che il concetto del  «bene», nella sua dimensione dialogica caratteristica, giacché viene a rapportarsi sempre all’«imagine  concreta della vita», non può essere «obbiettivato in un termine assoluto ed irrelativo, che serva di stregua ai particolari giudizi etici: anzi i beni sono tanti quante le concrete relazioni che offrono materia, e danno occasione alla ricerca»[40].

     Il dialogo in tale ottica va inventato, costruito. Ogni situazione dialogica non è uguale ad un’altra. A ciascuna il suo dialogo. Con tutte le conseguenze, sugli altri piani del discorso socratico. Per esempio in tema di ευ̉δαιμονία:

 

Questa stessa relatività ed imprecisione è inerente al concetto di  ευ̉δαιμονία; e sebbene la identica denominazione presenti le apparenze di una determinazione logicamente certa, pure in fondo non è che un termine comune, la cui intelligenza dipende dalle reali condizioni nelle quali si svolge il dialogo. Così l’etica di Socrate non è che un primo rudimentale tentativo, per delineare all’occhio della mente le varie relazioni della vita sociale, col raccogliere nella evidenza di una definizione i tratti più notevoli delle singole forme[41].

 

     Le forme, i loro tratti “genetici” secondo “logica”. Cioè il criterio del morfologico in formazione,  in presenza della dimensione etica, dialogica, propria di Socrate. «La sfera della coscienza socratica», che intanto può apparire «più larga di quel lavoro scientifico che ne fu il risultato», in quanto «la personale influenza di Socrate […] a quando a quando seguiva una direzione meramente ricercativa»[42].

    La quale,  risolvendosi nel dialogo, veniva subito a collocarsi come nel mezzo:  tra le fonti culturali da cui Socrate proveniva e di cui era parte organica,  e i frutti culturali  prodotti dalla sua azione formativa:

 

L’intuizione socratica fa parte della storia generale della coltura greca; e l’immagine del mondo che ne risulta è in intima relazione con tutto quello sviluppo delle convinzioni etiche e religiose, le cui tracce sono tanto evidenti nei monumenti dell’arte, della poesia, della storiografia. Ma nondimeno, sebbene essa risulti per una lunga mediazione storica da tanti svariati precedenti, nella coscienza di Socrate ha un carattere affatto immediato, il cui valore non è interamente espresso in quello che può chiamarsi dottrina, o scientifica elaborazione. E questa immediatezza o spontaneità  apparisce ancora più palese, se per poco si pon mente a considerare gli svariati germi di ricerche scientifiche, che i pronunziati di lui fruttarono nell’animo degli uditori[43].

 

     In altri termini, del dialogo socratico secondo Labriola si potrà dire qualcosa di certo solo fino ad un certo punto: per il fatto che

 

l’esposizione della dottrina di Socrate ha sempre l’apparenza di rassomigliare ad un’analisi artificiale, e diremmo quasi arbitraria; perché si riesce a mettere in evidenza un solo lato della sua coscienza, isolandolo dall’altro cui va strettamente congiunto: e di qui procede eziandio, che questo soggetto tante volte trattato ha conservato e conserva tuttora l’attrattiva di una ricerca non mai esaurita[44].

 

 

 

      

       Il  figlio del “papuano”    

 

      Una conclusione questa, che se sposta decisamente l’attenzione sulla complessità e sull’unicità della costruzione in fieri del dialogo socratico-labrioliano, getta anche luce sulla peculiarità della stessa istanza dialogica principale, etico-politico-educativa, di Labriola. E sui suoi limiti.

    Una questione metodologica “di principio” che, nella sua dialogicità, da un lato dipende dalla specifica tradizione su Socrate (la prima strada, da percorrere necessariamente, per attingere all’opera non scritta dell’ateniese), da un altro lato pretende di essere integrata con gli interventi dei singoli interlocutori di Socrate (la seconda strada, egualmente imprescindibile, per attingere al prodotto della maieutica socratica).

    Un dialogo, infiniti dialoghi, tuttavia, quelli tra Socrate e chi gli sta di fronte, di cui a nessuno è dato realmente di sapere. Sicché lo stesso principio “dialogico” di Labriola, nel suo riconoscibile socratismo, non può non risentirne: se è vero, come lo stesso Labriola sostiene, che solo l’immediatezza del dialogo, la sua concreta, effettiva praticabilità, può restituire formalmente i termini  dell’operazione pedagogica di stampo socratico.

     Ed è una dimensione dialogica, che ha comunque in Labriola i suoi limiti evidenti, limiti tanto filosofici e pedagogici, quanto storici e politici. E che, per esempio, proprio negli stessi anni del Socrate viene precisandosi in tema di “libertà d’insegnamento”: una libertà per l’appunto  -  sostiene Labriola  -  che «può intendersi per doppio verso: scientifico o filosofico, politico o pratico»[45]. E dunque, nel fuoco di una lotta per la libertà della scienza:

 

     La questione scientifica  […] può […] ridursi a questa semplice e popolare riflessione: la libertà razionale può, anzi deve conciliare tutti i principi tranne quello dell’autorità cieca e arbitraria che è appunto la negazione perentoria della libertà razionale stessa. Come la libertà giuridica non può essere mai tanto conciliante ed estesa da concedere che ladri e galantuomini vivano assieme, così la libertà scientifica non potrà mai venire a patti coi romanisti più o meno rabbiosi, i quali portano scritto sul cappello a stajo o a tre punte: morte alla scienza[46].

 

Di modo che (e qui il dialogo risulta essenziale)

 

essa è tutto affare degli studiosi di professione i quali, per essere guarentiti nel giusto uso della medesima in Italia, non hanno più bisogno di niente, se non della loro buona volontà e forza d’ingegno[47].

 

Altro invece è il caso del dialogo nella «questione politica dell’insegnamento libero», della «libertà d’insegnamento». Su cui Labriola precisa:

 

     Questo concetto ci sembra falso di pianta per due ragioni principalissime. La prima, che una assoluta libertà di principi, quanto è utile anzi necessaria fra gente adulta e colta, la quale trova appunto nella sua coltura tutte quelle mitigazioni e prudenze che non potranno mai condurre ad altro se non a un avanzamento equabile e collettivo della umana intelligenza, altrettanto può riuscire pregiudizievole ed anche esiziale fra una popolazione che, come la nostra, conti una forte maggioranza d’analfabeti e, in ogni modo, fra una popolazione nella quale si contano a migliaia i bambini, gli adolescenti ed i giovani, che hanno bisogno non di libertà ma di guida, e guida relativamente sicura, nello insegnamento[48].

 

     Un’operazione pedagogica, questa, che d’altra parte introduce ad una filosofia e ad una politica che si spiegano nondimeno, nel Labriola della fine degli anni Sessanta-primi anni Settanta, in presenza della interpretazione hegeliana di Socrate e alla luce delle  sue letture herbartiane del tempo. Già Hegel infatti, come è stato rilevato, poteva avergli insegnato che  la filosofia di Socrate «non è il ritirarsi dall’esistenza e dal presente nelle libere, pure regioni del pensiero, ma tutt’uno con la vita», e «non procede a sistema»[49]. Quanto ad Herbart, invece, viene in mente lo Herbart “dialogico” che il Labriola studioso di Socrate accosta a W. Wehrenpfenning, e sul cui “Platone” prende appunti nei seguenti termini:

 

     Ma noi seguiamo la spiegazione dell’Herbart: Il bene figura qui come un principio di mediazione che mette in comunità le idee per sé rigide ed incomunicabili. E in quanto poi l’essere in quanto qualità è anch’esso un’idea, il bene in unione di esso comunica l’essere alle altre; e da ciò procede che esso produca anche il conoscere, in quanto le intelligenze entrano in contatto con l’essere[50].

  

     Il bene, si direbbe, come principio del principio dialogico. Il dialogo come mediazione e possibilità di comunicazione tra le idee e l’essere, e dunque come eventualità del contatto delle intelligenze con l’essere. Un contatto, che se non si verifica, è la stessa morfologia del formativo a risultare costitutivamente intaccata, alterata; e, in certe situazioni, dirà altrove Labriola, resa del tutto impossibile. Sicché il magister non avrebbe in tal caso pressoché nulla da fare: e del “per chi” e del “con chi” della sua mancata attività di insegnamento non ha alcun senso parlare. 

      Ecco perché, se con gli abitanti della “città” (nella Atene di Socrate, come nella  Roma di Labriola) le condizioni del dialogo sono immediatamente favorevoli all’azione pedagogica del “Socrate” di turno, nell’“universo mondo” e cambiando i presupposti culturali della questione dialogica, lo sono assai di meno. E, in qualche caso  -  sostiene Labriola  -  possono non esserlo affatto.      

      Visto che, a deciderlo, non è la pura e semplice volontà degli uomini, ma la storia («la sola e reale signora di noi uomini tutti»). La quale, tra scienza e ideologia (tra “tempi lunghi degli accadimenti” e “fatale andare delle cose”), determina politicamente  i propositi e le scadenze, le decisioni e gli interventi  tecnici dell’educativo; le loro modalità dialogiche; e, ancora prima,  la stessa  proponibilità del dialogico.

      Racconta infatti Croce,  lo scolaro Benedetto Croce:

 

     “Come fareste a educare moralmente un papuano?”, domandò uno di noi scolari, tanti anni fa (credo circa trent’anni fa), al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia, obiettando contro l’efficacia della Pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con vichiana e hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”[51].

 

     Ma con i figli, con i figli del “papuano”, intanto, che fare adesso, subito? Sarà meglio renderli schiavi o incominciare ad educarli? Farsi o non farsi magister, con loro? Siamo al di qua o al di là dei confini di una ipotetica educabilità, al di qua o al di là dei limiti del  dialogico?

     Non sono tuttavia  interrogativi questi, che, almeno nell’immediato, sembrano riguardare il “socratico” Labriola. Né il Labriola liberale autore del Socrate, né quello marxista della fine dell’Ottocento-primi anni del Novecento. Perché mancando secondo lui i presupposti formali  di un’azione educativa, vengono meno anche i contenuti di essa. Non se ne può addirittura parlare.

     L’insegnamento possibile non può essere infatti altro da quello che, a certe condizioni, riesce a svolgersi, sulla scorta di «preparazione specifica e di disciplina, di una serie di strumenti tecnici, di sicure tradizioni, di una particolare attitudine e di pratica»[52]. Dove manchino queste condizioni, caratterizzanti la stessa libertà del magister, non si dà insegnamento alcuno, né si rendono possibili apprendimenti. Ecco perché il “papuano”, non libero nel senso “negativo” (kantiano) del termine, è esso stesso la prova dell’inefficacia della  «pedagogica».  

    Che consiste, invece, in una «funzione affatto definita, che non è da confondere con quella dell’apostolo, del predicatore, del propagandista, del giornalista»[53]. Una funzione tecnica che secondo Labriola, per essere svolta, esige già in partenza, nei destinatari, un’iniziale maturità di vedute, stabili capacità critiche, conformazioni culturali avanzate. E dunque la necessità di dare tempo al tempo, di stare quindi nella storia, di osservare la lentezza del suo ritmo  e, qui ed ora, di non bruciare le tappe, ma di assecondarne il verso. In politica, come dalla cattedra universitaria:

 

      Chi sta sulla cattedra universitaria, non deve occuparsi della cronaca quotidiana, non deve esporre la sua opinione su cose particolari, non deve arringare né agitare, ma insegnare, cioè dimostrare, spiegare, interpretare le cose[54]. 

 

     Non deve sollecitare le cose; non intervenirvi; non tentare pertanto di mutarne il corso. Questo non è il  compito del magister: che è quello, invece, di dimostrarle,  spiegarle, interpretarle. cioè di assecondarne l’andamento. Magari polemicamente, ma niente di più di questo.

     Il magister che, con i propri studenti, non deve fare altro che

 

chiarire i concetti, le parole, i segni, sceverare le regole e le idee fondamentali, formulare le dottrine, presentare le modalità di sviluppo, condurre ad unità i singoli processi, per quanto più questo gli può riuscire possibile[55].              

 

     Ed  è rivolgendosi direttamente agli studenti della sua università infatti, nel novembre del 1896, che Labriola precisa una volta di più la sua posizione di insegnante[56]. Una posizione che, diversamente da quella da lui sostenuta in precedenza nei confronti del “papuano” («lo farei schiavo»), non vuol essere, come dichiara,  la posizione del «padrone», del «direttore di civiltà» o dell’«iniziatore della storia»[57]. 

     Ma che adesso, come prima discorrendo del “papuano”, induce Labriola a ragionare ancora in termini di «generazioni»[58]: non soltanto però, come in quel caso, delle generazioni future dei «nipoti e pronipoti» del “pappano”, moralmente educabili, forse; quanto delle presenti e vive, ovvero della formazione in atto della  capacità critica e di scelta dei giovani universitari  che ha di fronte. Di chi, in altri termini, pur non credendo Labriola «al privilegio di razza, in fatto d’ingegno», si trova tuttavia a vivere una condizione culturale favorevole, storicamente avanzata; e per il quale dunque, nell’arco di questa vita, ha senso «aspettare che si formi e maturi»[59].

     Che si formi e maturi, cioè, in cooperazione con gli insegnanti (sottolinea il socratico Labriola), ossia dialogicamente. Anche se ciò non può avvenire che nei limiti consentiti dalla  «ragione tecnica» della «pedagogia nostra», su cui si fonda lo stesso principio dialogico, che accomuna docenti e discenti, in quanto «commilitoni sotto l’insegna di quella libera e spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere ad un tempo»[60].

      E che è sì la ratio del magister nella quale (ribadisce Labriola) «consiste la specialità della nostra carriera, e la garanzia che le compete»[61]; ma che, come punto di vista, non riesce ad uscire dalle barriere imposte dalla storia. Considerato che (aveva  precisato in precedenza), «anche noi professori, con tutto quello che noi facciamo, noi siam vissuti dalla storia; che è la sola e reale signora di noi uomini tutti»[62].

            

         

 

 

 

 

 

 

   



[1] Per un profilo d’insieme del Labriola e per indicazioni bibliografiche essenziali, cfr.  N. Siciliani de Cumis, Antonio Labriola a cemtosessant’anni dalla nascita, in “pedagogia e vita”, luglio-agosto 2003, pp. 65-80.

[2] A. Labriola, Epistolario 1890-1895. Introduzione di E. Garin, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, p. 354 (una lettera del 9 novembre 1891).

[3] Cfr. A. Labriola, Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, UTET, 1981, pp. 568-569.

[4] A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele (1871). A cura di Luigi Dal Pane, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 35.

[5] Ivi, pp. 99-101.

[6] Cfr. L. Dal Pane, Antonio Labriola. La vita e il pensiero, Roma, Edizioni Roma, 1934-1935, pp. 60-61.

[7] A. Labriola, Ricerche sul problema della liberà e altri scritti di filosofia e di pedagogia (1870-1883). A cura di L. Dal Pane, Milano, Feltrinelli, 1962,  pp. 6-7.

[8] Ivi, p. 55.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem. Diversamente che in Platone, in Socrate «non è da trovare neppure il più lontano germe della dottrina psicologica della morale: cosacche il concetto che egli cercava, la semplice intellezione morale, gli appariva come causa immediata di una volizione immediata» (ivi, p. 56).

[11] A. Labriola, Scritti pedagogici, cit.,

[12]  Ibidem.

[13]  Ivi, pp. 569-570.

[14] Ibidem.

[15] A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele, cit., p. 42.

[16] Ivi, pp. 42-43.

[17] Ivi, pp. 74-75.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 76.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 79.

[26] Ibidem.

[27] Ibidem.

[28] Ivi. p. 80-81.

[29] Ivi, p. 82.

[30] Ibidem.

[31] Ibidem.

[32] Ivi, pp. 94 sgg.

[33] Ivi, p. 99.

[34] Ibidem.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, p. 100.

[37] Ivi, pp. 140-141.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Ivi, pp. 141-142.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] A. Labriola, Scritti pedagogici, cit., pp. 123-126 (un articolo in “Il Piccolo  Giornale di Napoli” del 21 gennaio 1869).

[46] Ibidem.

[47] Ibidem.

[48] Ibidem.

[49] G. G. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, Perugina-Venezia, La Nuova Italia, 1930 sgg., II, p. 52. Cfr. G. Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia, Urbino, Argalìa, 1976, p. 33.

[50] A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele, cit., p. 252. Cfr. quindi J. F. Herbart, Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, a cura di I. Volpicelli, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1997, p. 195.  

[51] Cfr. B. Croce, “Rivista bibliografica” (a proposito di G. De Ruggiero, “Critica al concetto di cultura”, Catania, Battiato, in  “La Critica”, vol. XII, 1914, p. 312; poi in id., Conversazioni critiche, serie seconda, seconda edizione riveduta, Bari, Laterza, 1924, pp. 60-61.

[52] A. Labriola, Scritti pedagogici, cit., p. 578 (una conferenza su Le ragioni e i limiti della libertà d’insegnamento, secondo il resoconto della Beilage della “Allgemeine Zeitung” di Monaco, 6 febbraio 1896).

[53]  Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] Ibidem.

[56] Cfr. A. Labriola, L’università e la libertà della scienza (1896-1897), in Scritti pedagogici, cit., pp. 613-616.

[57] Ibidem.

[58] Ibidem.

[59] Ibidem.

[60] Ibidem.

[61] Ibidem.

[62] Ivi, p. 604.