Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate, che
fu molto lodato dallo Zeller, e son sempre un po’ socratico
nella mia
vocazione.
“Come fareste ad educare moralmente un papuano?”
[…] “Provvisoriamente lo
farei schiavo; e questa sarebbe
la pedagogia del caso, salvo a
vedere se pei suoi nipoti e
pronipoti si potrà cominciare ad adoperare
qualcosa della
pedagogia nostra”.
Antonio Labriola
Labriola,
il “socratico”
Nel rifarmi a quanto accennavo ieri, può forse servire
riandare ai “principi” (agli inizi e ai presupposti ideali) dello
Homo homini magister, per così dire, per noi. Il riandare cioè
alle ragioni culturali remote del nostro stesso modo di essere, in quanto
insegnanti nel contesto che ci concerne… Per arrivare quindi, “per li rami”, al
tema dell’“uomo maestro per l’altro uomo”: un tema che, nello specifico, non
solo non è nuovo nell’attività pedagogica universitaria romana da centotrenta
anni a questa parte, ma che addirittura la connota all’origine, da un secolo
all’altro, mediante il magistero di Antonio Labriola, dal 1874 al 1904, come
docente di Filosofia morale e pedagogia, di Filosofia della storia e, infine,
di Filosofia teoretica[1].
Da un secolo all’altro, che è proprio il titolo dell’estremo e più drammaticamente dialogico dei Saggi labrioliani sulla concezione materialistica della storia: il cosiddetto “quarto saggio”, progettato al culmine di una straordinaria carriera di docente e di studioso. Un impegno di ricerca e didattico, tuttavia, che il Labriola non riuscirà a condurre a termine, a causa del cancro che lo aveva colpito alla laringe- «organo pedagogico» (come diceva), e di cui morrà.
Il male gli consentirà tuttavia, per un certo tempo, di far lezione mediante gli strumenti didattici possibili nelle sue condizioni: gli appunti, che il professore faceva leggere ai suoi stessi studenti; i messaggi scritti, che trasmetteva loro per farsi intendere; la mimica del buon meridionale “fine dicitore”, descritto una volta da un biografo come “omnimoventesi”… La didattica, insomma, di un autore comunicativo a trecentosessanta gradi, che conclude il suo discorso dialogico, ragionando del “dialogo” tra i secoli, in particolare del Settecento con l’Ottocento, e volgendo lo sguardo ben oltre il secolo XIX, nel Novecento.
Il “quarto saggio”: che fornisce pertanto un’analisi teorico-pratica coincidente con le lezioni degli ultimi corsi universitari del Labriola. Il quale aveva appena pubblicato come “terzo saggio”, tra il 1897 e il 1898, un’opera anch’essa apertamente dialogica fin nel titolo, Discorrendo di socialismo e di filosofia: e dialogica, a maggior ragione, alla luce della contemporanea prolusione inaugurale sull’Università e la libertà della scienza, apertamente colloquiale con gli studenti della “Sapienza” romana fin de siècle.
Il Labriola, d’altra parte, che affida la propria verve maieutica, oltre che alla sua caratteristica oralità, ad un imponente epistolario pubblico e privato e ad una notevole quantità di conferenze, dibattiti, interventi giornalistici, prolusioni, prefazioni, interviste, conversazioni, dichiarazioni. E che, così facendo, finisce col richiamarsi ora implicitamente ora per esplicito al suo Socrate, sottolineando a chiare lettere la propria vocazione dialogica.
Una vocazione, che all’alba del Novecento, se da un lato porta Labriola a trattare filosoficamente e politicamente del mondo avvenire e a cogliere la morfologia dei processi di relativa globalizzazione allora in atto, da un altro lato lo induce a riproporsi nei rapporti con gli altri nella sua dialogicità primigenia, permanente, dichiaratamente “socratica”. Come fa, per esempio, con Friedrich Engels: «Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate, che fu molto lodato dallo Zeller, e son sempre un po’ socratico nella mia vocazione!»[2].
Difatti si sa che Labriola provasse volentieri ad esercitare la sua maieutica con familiari e scolari, operai, sartine, tipografi, poeti dialettali, preti, insegnanti e personalità intellettuali di ogni genere, amici e nemici, circoli culturali, redazioni di riviste e giornali, organizzazioni sociali, partiti politici, ecc. E sono noti i riconoscimenti in tal senso, da parte di allievi, uditori, corrispondenti (cito solo il casi di Benedetto Croce, Romolo Murri, Padre Semeria, Ettore Romagnoli, Ernesto Buonaiuti).
Così non è un caso che, stando al racconto di alcuni suoi scolari, Labriola arrivi a scorgere in Socrate, nel Socrate “genetico” dei suoi primi passi di ricercatore, l’atto di nascita dell’attività educativa come fatto scientifico, e dunque il τì ̉εστι dello homo homini magister:
Ad un
certo punto dello sviluppo umano questa educazione, preesistente come fatto e
già ridotta ad un’arte empirica, comincia a diventare oggetto di una
discussione scientifica, come, per esempio, accadde per la prima volta in
Grecia al tempo dei Sofisti e di Socrate. Allora nascono dei problemi come
questi: L’uomo è educabile ad arte? Entro quali limiti l’educazione è
possibile? Quale ne è il fine? Quali ne sono i mezzi e i gradi? Da questo momento comincia la storia della
pedagogica come tentativo di completare, correggere, sviluppare e
sistematizzare l’arte pratica dell’educazione[3].
Di qui il motivo iniziale dell’interesse di Labriola per Socrate: un interesse, che stimola a considerare il Socrate oggetto della trattazione, alla luce della “rosa” degli elementi dialogici caratterizzanti soggettivamente lo stesso ragionamento labrioliano. Nel senso che, da un lato, c’è un “dialogo socratico” veicolato da Platone, Aristotele, Senofonte (e da tutti gli altri autori, antichi e recenti, che Labriola interpella variamente nella sua monografia); da un altro lato, al di là della dialogicità di Socrate veicolata dalla tradizione e filtrata tecnicamente da Labriola, compaiono le peculiari concettualizzazioni dialogiche di quest’ultimo: ciò che, in un certo senso, potremmo definire la sua ideologia dialogica, il suo proclamato socratismo.
Il che non toglie, tuttavia, che siffatto socratismo abbia alcuni limiti precisi. Limiti dettati dalla storia complessiva degli accadimenti e dunque specificamente, secondo Labriola, dalla storia dell’educazione e della scienza pedagogica: dal fatto cioè che, occorre pur sempre fare storicamente i conti con i ritmi (e la lentezza e i ritardi e gli impedimenti) imposti dalle leggi di sviluppo, genesi e formazione e dall’evoluzione naturale dei processi educativi.
I conti, con la “praticità”, l’“attuabilità” ed insieme con le “difficoltà” e “impossibilità” formative, dipendenti dall’insieme delle regole psicologiche e pedagogiche imposte dalla forma storica dei processi educativi in atto e quindi dai condizionamenti derivanti dalle leggi di sviluppo, genesi e formazione di ciascun ipotetico momento dialogico (con se stessi, prima che con gli altri).
Il “Socrate” inesistente
In altri termini, è lo stesso autobiografismo metodologico
(mono-dialogico) che è proprio di Labriola fin dalla giovinezza, a stabilire
tecnicamente, per analogia e per differenza, la prima caratteristica “storica”
dell’azione del magister Socrate. E’ la modalità pedagogica d’abbrivio,
a decidere della peculiarità e dell’entità dialogica del “nuovo”:
Imparare a leggere, a recitare poi a
memoria le sentenze degli antichi poeti; assuefarsi alla modulazione ed al canto, ch’era destinato a formare nell’animo
il senso dell’armonia; esercitare il corpo con la ginnastica, per isviluppare
con la regolarità dei movimenti l’accordo
dell’esterno con l’interno, ed il senso dell’euritmo; in questi tre capi
consisteva l’educazione dell’Ateniese[4].
E l’educazione di Socrate, secondo le testimonianze. E,
d’altro canto, è la stessa modalità
filologica esercitata da parte sua da Labriola scrivendo di Socrate (oggettivamente
deprivata a monte, a partire dalle
“opere” dell’autore, che non esistono), a creare le condizioni
dell’interferenza dialogica labrioliana nel processo di ricostruzione
storiografica, e, di conseguenza, il presupposto di una qualche sovrapposizione
di personalità congeniali:
E, facendo la propria educazione, Socrate era
divenuto educatore […] questo curioso fenomeno di Socrate che educa educandosi,
e nell’atto che è incerto di tutto, mediante l’analisi della propria
incertezza, produce per sé e per gli altri il criterio della convinzione […].
Non fu filosofo di mestiere, ma certamente pedagogo, anzi, come Aristofane lo
chiamava a quel tempo,
ψυχαγωγός; e facendo della sua vita un problema
educativo, con l’educare sé medesimo e gli altri al tempo stesso, mentre poneva
termine al dilettantismo sofistico, impedì che la filosofia tornasse ad essere
mera ricerca dei fenomeni naturali[5].
Proprio Labriola, altrove (anche per questo riferimento polemico al dilettantismo sofistico e alla mera ricerca dei fenomeni naturali), autorizza l’accostamento dell’esperienza dialogica di Socrate nell’Atene del V secolo a. C., alla sua propria analoga esperienza di uomo dell’Ottocento, quando, nel quadro di una riflessione sul concetto del lecito, così scrive (all’inizio degli anni Settanta):
Un
Socrate che miracolosamente redivivo andasse attorno per le case altrui e per
le pubbliche vie invaso della curiosità d’intendere come e in che misura gli
uomini abbiano coscienza di quel che si fanno e sappiano darne contezza in
concetti chiari e precisi non troverebbe quelli del giorno d’oggi gran fatto
progrediti in confronto dei contemporanei suoi, con questa notevole differenza,
a svantaggio dei presenti, che i suoi contemporanei erano come per la prima volta usciti dal grembo della natura e
non s’erano elevati fino ai concetti, e gli uomini di oggi sono invasi da un
malanno nuovo, quale quello che rincalza la sofistica della vuota riflessione
nell’entusiasmo di una ribellione autoritativa come la prepotenza cui si
ribella. Quando si dice: questo è lecito: quello è permesso: questo si può
fare: quello non è vietato: e la coscienza si appaga di coteste definizioni, è
segno certo che la catechistica l’aveva già divezza dal far uso dei propri
criterî[6].
Il Socrate magister, che Labriola viene pertanto definendo grado a grado, è tale cioè, soprattutto in quanto si rapporta agli altri e dialoga (indirettamente) con gli altri, Labriola compreso: perché chi gli sta di fronte (l’interlocutore di turno), per apprendere alcunché da lui (maestro sui generis), consente a Labriola medesimo di apprendere ciò che Socrate riuscirà ad insegnargli. Meglio, ciò che Labriola, nel monologo con lui, domanderà di imparare. In funzione del “dialogo”.
In questo senso, il momento dell’apprendimento, dal punto di vista del “maestro” socratico delineato da Labriola, precede l’insegnamento di Socrate e nondimeno segue ad esso. E’ insieme, causa ed effetto: la prova della indispensabilità tecnica del dialogo, come procedura costitutiva di qualsiasi apprendimento-insegnamento proprio ed altrui. Ed al tempo stesso la prova della sua impossibilità. Socrate non esisteva prima, smetterà di esistere dopo.
Tuttavia, spiega Labriola in Della Libertà Morale (nel 1873), ancora con riferimento alla propria “socratica” quotidianità e a se stesso, diresti, come di un discepolo di Socrate di cui il Maestro inesistente avrebbe potuto fidarsi:
l’educazione sta all’uomo reale, come
ogni ideale sta al reale: questo vi si
avvicina, non lo raggiunge mai. E gli
uomini di fatti la licenza di tenersi per tali se la pigliano spesso da sé,
senza avere alcuna considerazione alla capacità loro: ed oggi così, come due
migliaia d’anni fa, Socrate potrebbe tenersi pago, di non trovare che pochi
pochissimi discepoli e fidi amici, ai quali la sua massima: che tanto l’uomo vale
quanto egli sa, andasse a sangue e non ribellasse la vanità e la prosunzione[7].
Da un lato cioè, ai primordi della storia dell’etica, Socrate ha inventato il dialogo, come strumento utile ad attingere le «intellezioni etiche» e a rettificare
il
concetto dei fini pratici della vita degli individui nei quali s’imbatteva, e
dei criterî coi quali essi giudicavano di cotesti fini e dei modi di
raggiungerli; e riassumere poi il risultamento della disamina in una
definizione chiara, le cui note erano state raccolte via via nel dialogo stesso[8].
Da un altro lato Labriola, dopo duemila anni, continua a ritenere attuale la domanda:
Ma
non è forse vero che gli uomini, nelle risoluzioni concrete, si conducono
spesso in opposizione del risultato stesso della riflessione, e fanno appunto
il contrario di quello che dovrebbero?[9]
E risponde:
Questo
c’è: ed è noto come Socrate riferisse
indistintamente al concetto dell’ignoranza tutta quella somma di
volizioni che noi chiamiamo cattive: o fosse poi costretto a ricorrere ad
alcuni dati puramente empirici nel determinare il concetto pratico della virtù[10].
Di qui il magister (il Socrate di Labriola), che deve mettersi alla prova, in quanto magister, nella misura in cui costruisce dialogicamente le competenze che gli appartengono in quanto “maestro”: quella che deriva dal motivo psicologico e antropologico; quella che viene indotta dal sociale e dall’etico-politico; quell’altra relativa al metodo; quell’altra ancora concernente i contenuti. Per rendersene conto, basta seguire le analisi labrioliane sui Socrate della tradizione, alla luce delle idee pedagogiche generali dello stesso Labriola. Idee veicolate, anche e soprattutto, per le vie peculiari del suo insegnamento.
Sembra difatti esserci una precisa corrispondenza, che
potrebbe dirsi in certo qual modo dialogica, tra l’“enciclopedia pedagogica”
veicolata dal Labriola alla fine degli
anni Sessanta dell’Ottocento, con riferimento alla formazione di Socrate (il
Socrate che viene formandosi dall’incontro con gli altri, il Socrate che viene
a sua volta formando chi l’incontra), e l’“enciclopedia pedagogica” labrioliana
rappresentata nelle sue componenti scientifiche ed educative dagli allievi di
Labriola, tra Otto e Novecento. Componenti scientifico-educative così
descritte, a partire dalla psicologia:
Quali
sono? Innanzi tutto, la psicologia, intesa nel senso lato della parola. Se
l’educazione è il tentativo pratico di
dare materia ed indirizzo alla naturale evoluzione, è chiaro che la
regola di ogni operazione pedagogica dipenderà dalla conoscenza delle leggi
psicologiche; non solo perché la conoscenza di tali leggi, che sono tutte leggi
di sviluppo, di genesi, di formazione, ci dà anche il limite dell’attività pedagogica, ma altresì perché
la formazione, pur avendo possibilità varie di modalità e di accomodazione, ha
schemi e confini valicabili[11].
In secondo luogo, l’antropologia e la psico-fisica:
Come
corollario delle cose dette sulla psicologia, si deve indicare l’importanza
speciale dell’antropologia e della psico-fisica, cioè delle discipline che
hanno per oggetto il terreno sottostante all’attività psichica propriamente
detta, o il terreno su cui l’attività fisica e psichica si confondono[12].
In terzo luogo, l’etica:
Se
la psicologia, nel senso lato della parola, col corollario dell’antropologia e
della psico-fisica, ci dà la conoscenza del subbietto su cui cade l’azione
educativa, questa ripete la coscienza della sua finalità dal concetto della
perfettibilità umana, ossia dall’etica. Perciò restando problema di pura
tecnica educativa la scelta, la prova e l’esperimento dei mezzi, la pedagogica, nel
segnare ed assegnare il fine ultimo delle sue operazioni, deve presupporre una
concezione assodata del fine morale della vita.
Tuttavia, in quarto luogo, la sociologia, la politica e l’amministrazione:
E,
perché la vita non è individuale soltanto, ma sociale, e non sociale per
accidente o per caso, perché la società è terreno e condizione dello sviluppo
individuale, così il rapporto della pedagogica con l’etica ci porta a stabilire
anche il rapporto fra la pedagogica stessa e la sociologia. Quest’ultimo
rapporto può poi specificarsi in quello della pedagogica con la politica e con
l’amministrazione, quando non si tratti più del concetto puramente filosofico
della pedagogica, ma si tratti, poniamo, dell’ordinamento, pratico della
scuola.
Infine, l’arte dell’educazione, la tecnica educativa:
che poggia immediatamente sul principio che non è possibile «identificare la vita e l’educazione» e che non vanno perdute di vista «tutte le differenze che corrono tra l’arte di educare intenzionalmente e tutti gli altri modi di apprendere e svilupparsi». Di modo che:
Tornando perciò sul dato
antropo-psicologico delle condizioni che sono proprie dell’infanzia e della
gioventù, bisogna riconoscere che solo ad esse si può riconnettere l’arte
dell’educazione, per le due principali ragioni, che questo è, per l’uomo, il
periodo della vera e propria formazione e che a questo periodo subentra
naturalmente l’esercizio autonomo della personalità, il quale esercizio, come
suppone che l’educazione intenzionale sia già finita, così esclude che si possa
o cominciare o continuare in seguito. Per tale ragionamento rimane fissato il
campo della vita nel quale può esercitarsi l’arte educativa e che costituisce,
in conseguenza, il limite della disciplina pedagogica[13].
Insomma,
se
la concezione genetica delle funzioni dello spirito ci fornisce la norma
teorica per enunciare che, essendo l’uomo il prodotto di una formazione, esso
può essere, per questa ragione appunto, oggetto di una formazione ad arte; per
la stessa ragione psicologica che dà il sostrato o il subbietto all’educazione,
rimane fissato il limite di questa[14].
Sono infatti le «condizioni della coltura ateniese» e lo stesso «risultato esclusivo cui pervenne Socrate con le sue ricerche» a costituire «un’antitesi così pronunziata» di Socrate verso il proprio mondo e verso tutti gli altri, che «rimane sempre vero quello che si è detto ripetutamente di lui, esser egli stato maestro a sé medesimo»[15]: di modo che la caratteristica dialogica di Socrate presenta storicamente e culturalmente i limiti della sua stessa novità, i limiti della non-intenzionalità teoretica della proposta, quindi i limiti che derivano dalle esigenze pratiche, puramente soggettive, personali, di essa e i limiti, dunque, provenienti dal contrasto con il senso comune e con l’etica circostanti.
Scrive quindi Labriola:
Questo
nuovo interesse e questa nuova maniera
di filosofare non apparisce in Socrate come qualcosa di teoreticamente
intenzionale, ma deriva intimamente dai suoi bisogni etici e religiosi, ed è il
risultato di un esame che egli ha
esercitato su sé medesimo, fino al punto di obbiettivare in una intuizione
etica dell’universo le esigenze dell’animo suo. Questo lavoro egli ha dovuto
compierlo reagendo continuamente contro tutte le tendenze opposte e divergenti
dei contemporanei […] quello che noi troviamo di filosofico in
lui, è stato, non il risultato di un’indagine più o meno teoretica e
dottrinale, ma un bisogno personale che si è fatto dottrina[16].
In questo senso, le istanze etico-pratiche di Socrate rappresentate da Labriola nascono da una spinta psicologica e morale, che non è innanzitutto “dialogica” ma monologica. Una spinta, derivante da una duplice emergenza: che, per la pars destruens, suppone la perdita (il danno?) di qualunque certezza comune e la cessazione di qualsiasi possibilità di accordo fra uomini; per la pars construens, ammette l’insorgenza (il vantaggio?) di domande alle quali rispondere intanto individualmente, e solo in seguito tra individui.
Perché i «presupposti storici e psicologici» del comune
sentire ed operare, che Labriola indica innanzi tutto, sono «le leggi del
meccanismo psichico» e «l’interesse individuale della propria conservazione»[17].
Leggi psicologiche e interesse conservativo che non sembrano andare al di là
degli automatismi involontari, al di là delle attività di rappresentazione e
dell’espressione di un sentire immediato. E si tratta di abilità elementari che
vengono quindi alterate ad opera del contesto culturale, in virtù della
necessaria reiterazione di comportamenti e disponendo di tutto il tempo che
serve.
Spiega infatti Labriola:
L’immagine della vita, che mercè la percezione e la incosciente
riflessione si forma e si sviluppa nella coscienza comune ed incolta, consiste
in una mutabile e perpetua vicenda di rappresentazioni e sentimenti, su la
quale le leggi del meccanismo psichico esercitano il loro assoluto ed esclusivo
dominio. Solo l’interesse individuale della propria conservazione e la ripetizione di certi atti abituali
possono imprimere nell’insieme delle rappresentazioni, che sono successivamente
presenti alla coscienza, degli impulsi per certe direzioni costanti; mercé i
quali si stabilisce il predominio di alcuni elementi della vita psichica su
tutti gli altri, ed in conseguenza di questo predominio, essa si costituisce in
tutte le sue specificazioni, come carattere, costume ed abito[18].
E continua:
Nella sfera della valutazione, questa
costanza assume la forma di opinione, e
viene espressa come giudizio tradizionale di una classe, di una casta o di un
popolo. Questa opinione tanto più è parziale, ostinata ed esclusiva, in quanto
che, poggiandosi sul meccanismo naturale della vita psichica, non ammette la
libera scelta dell’individuo, e non lascia a tutti gli elementi dell’anima il
campo libero per coadiuvarsi e fortificarsi. La coscienza dell’individuo, in questo
primo e più semplice stato della vita psichica, obbiettivando imperfettamente,
riesce a considerare come qualcosa di esterno e di assolutamente immodificabile
il limite intrinseco della propria attività, e confondendo le proprie
condizioni con quelle della natura, naturalizza sé stessa nel mito, nella
parola tradizionale e nel costume[19].
E’ questa, in altre parole, un’età primitiva, che si
esprime con mezzi primitivi. Un’età che non viene superata, dimenticata
mai del tutto negli avanzamenti culturali delle età successive; e che, nella
sua processualità complessa, lenta, per essere scalfita e modificata, abbisogna
di assiduità, continuità e di tutto il tempo necessario. Non poco, magari secoli:
Questo stato primitivo della coscienza
umana, sebbene corrisponda all’epoca della prima formazione della società, si
continua e perpetua anche nei periodi posteriori della storia, perché acquista un carattere sostanziale nei
costumi e ferma la sue espressone nei miti e nella poesia primitiva. Il sorgere
successivo ed il lento sviluppo della riflessione, che sono determinati da
cause molto complesse, e varie secondo gl’individui, non riescono ad escludere
tutto ad un tratto le diverse manifestazioni di quella coscienza primitiva ed
irriflessa; e la trasformazione degli antichi elementi, in concetti,
coscientemente appresi e pensati, non avviene che per la via d’un lungo
processo, e di una lotta assidua, incessante, secolare[20].
Di qui (in questo convergere delle emergenze del “vecchio” e del “nuovo”, che è tutt’altro che pacifico e che semmai risulta intimamente conflittuale), l’importanza non solo tecnica ma anche strategica (storico-sociale ed etico-politica) della lingua, come luogo naturale della conservazione e delle possibili innovazioni culturali, comunicative, dialogiche. Della lingua, come primo laboratorio della morale e, per l’appunto, mediante «la via d’un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante e secolare»[21].
Infatti, prosegue Labriola:
Questo processo di trasformazione non ha
luogo solo per l’azione di quei motivi
intrinseci di esame e di critica, che possono dirsi teoretici; ma emerge
necessariamente dalle collisioni pratiche fra la volontà dell’individuo e l’opinione
tradizionale espressa nel costume; e, più tardi assume il carattere d’una lotta
sociale fra classe e classe, individuo e individuo[22].
Ed è un processo che vede, da un lato, l’eclissi dei “valori comuni” e di conseguenza la negazione di qualsiasi possibilità di dialogo (l’emergenza-incomunicabilità); da un altro lato, il bisogno individuale di indagine, l’affermazione dell’istanza interrogativa e l’esigenza della comunicazione interindividuale (l’emergenza mono-dialogica).
Soggiunge quindi Labriola:
Ma quando gli uomini hanno
cessato di trovarsi istintivamente d’accordo in quello che deva chiamarsi
giusto, virtuoso, onesto, lecito, santo, empio etc. e che [sic] hanno
perduta la fede in quei tipi astratti del mito e della leggenda, nei quali la
fantasia primitiva avea espresso ed ipostatato i comuni criterî della
valutazione morale, allora sorge necessariamente nell’individuo il bisogno di
rifarsi da sé quella certezza, che prima avea nell’acquiescenza in un criterio
comune e naturale, e dice τì ε̉στι[23].
E ancora dopo:
Le
relazioni etiche, gli affetti dell’animo, le passioni, i giudizi morali passano
successivamente per una serie di determinazioni sempre più profonde, e più
ricche, finché la divergenza dei criterî individuali non arriva a suscitare il
bisogno dell’indagine, dell’esame, e della critica, e ad esigere che la ricerca
ristabilisca coscientemente, nella forma riflessa del sapere scientifico, il
criterio della certezza[24].
Ed è ciò che vale sia sul piano della qualità, sia su quello
della quantità. Giacché, se per un verso stabilisce le infinite potenzialità
del dialogo, comporta per un altro verso un insieme di difficoltà ed un
intreccio di dubbi, limitazioni, impossibilità:
E qui
bisogna che l’interrogazione si moltiplichi, e divenga tante domande, per
quante sono le rappresentazioni addotte a chiarire, e ad esemplificare il
concetto che si cerca. Questa nuova esigenza porta con sé un allargamento
dell’indagine, e un apparente allontanarsi dalla quistione primieramente
proposta. Il dialogo s’impiglia in molte e svariate difficoltà, una certa
inquietezza s’impadronisce degl’interlocutori; il risultato diviene incerto, e
si è quasi ad un passo dall’eristica ed antilogistica dei Sofisti[25].
Di più, è Socrate stesso (e lo è Labriola, a sua immagine e somiglianza) a stabilire le regole di un crescendo di difficoltà dialogiche:
ed a renderle invincibili, Socrate confessa la
propria ignoranza; e nella piena coscienza dell’altrui presunzione ed
insufficienza manifesta uno dei tratti più notevoli della sua natura, l’ironia.
Il filosofo in fatti non può, in quella
condizione in cui s’è messo, non confessare la propria ignoranza, perché il suo
sapere è pura esigenza, o meglio consiste solamente nella coscienza
dell’attuale incertezza. Quello che egli cerca deve ancora trovarlo; né basta
che l’abbia ottenuto una volta, perché lo formuli in una maniera generale, e lo
tenga in serbo per mostrarlo a quando a quando. Il motivo dialogico, che è il
solo movente della questione, varia secondo le occasioni, e porta l’indagine
sopra oggetti ed argomenti sempre diversi; sicché si tratta sempre di eccitare
nuovamente il bisogno dell’aporia, perché questa invogli alla ricerca, e fissi
implicitamente la natura del processo[26].
E continua:
E di qui procede ancora, che Socrate, non avendo una
notizia anticipata di quello che cerca, e mettendo in opera la sua attività
formale sempre nei limiti precisi e determinanti di un dialogo, comincia
dall’ammettere negli altri una piena scienza di quello che si cerca, e [o] dalla
loro confessione che nulla sappiano, o dall’incertezza con la quale pronunziano
le loro opinioni, è indotto all’ironia, che in lui assumeva la forma costante
di un abito filosofico[27].
Il dialogo socratico, quindi, nelle sue caratteristiche e nei suoi limiti storici (rispetto a Platone), si qualifica
mediante il
movimento ascensivo o epagogico della incertezza delle opinioni comuni, a
quella costanza ed evidenza di affermazioni, che risulta dall’esaurire tutte
le comuni accettazioni della parola in
quistione. […] Ma come l’attività socratica non riuscì mai
ad isolare il formalismo logico dalle condizioni reali in cui s’era sviluppato,
così l’interesse dialogico dell’induzione e della definizione non si manifestò
che in una forma concreta ed occasionale, come bisogno etico e pedagogico: e
non potette, per questa ragione appunto, obbiettivarsi in un’ipotesi
metafisica. Nulladimeno, per quanto il concetto socratico sia lontano da ogni
idea metafisica, non può sconoscersi che esso sia stato il primo motivo, e la
prossima occasione delle idee platoniche[28].
E qui Labriola tiene a far presenti alcune circostanze e
caratteristiche del proprio lavoro di ricostruzione del dialogo socratico, che
vale la pena di avere presenti. Sia per gli espliciti riferimenti alle fonti,
sia per ciò che, vi aggiunge di proprio e di nuovo, quasi interagendo con esse.
Se l’esposizione labrioliana del metodo socratico è per un
verso, secondo lo stesso Labriola, «attinta genuinamente dallo schema generico
del dialogo senofonteo e platonico», per un altro verso, «è stata ravvivata da
una indagine genetica dell’aporia e dell’interrogazione sospensiva»[29]. Il che può essere avvenuto anche, oltre che
per le vie filologiche, per quelle
autobiografiche tipiche del Labriola magister.
Se Senofonte e Platone, poi, hanno per Labriola «lo stesso
valore, quando si tratta di assegnare il carattere formale solamente» del
dialogo, non lo hanno in tema di «conclusioni positive del dialogo socratico»,
perché «solo nella diversità di queste è riposta la novità del platonismo, che
cercava di ricavare dall’induzione l’assolutezza ed il carattere incondizionale
delle idee»[30].
Occorre cioè evitare
- spiega Labriola -
«la posizione erronea di coloro che, prendendo le mosse dal concetto
astratto del metodo, hanno poi cercato di applicarlo alla investigazione del
dialogo socratico»[31].
Perché c’è una irripetibilità della propria condizione di maestro, che tende a
coincidere con le specifiche sue esperienze dialogiche. Né più né meno.
Il che significa che il Socrate magister, secondo
Labriola, va considerato nella sua singolare concretezza investigativa e
dialogica. Vuol dire che, quello di Socrate, è un tentativo educativo di tipo immediatamente “pratico”, fondato
sull’«assoluta identità del sapere col volere»[32].
Un tentativo del lì e dell’allora, nello spazio e nel tempo, che appartenne
storicamente a Socrate.
Il tentativo, tuttavia, di una traduzione dell’attività
pedagogica, svolta da Socrate per
l’innanzi su «sé medesimo», in «quel lavoro di esame, che posteriormente
consigliava agli altri»[33].
Ma che non sarebbe potuto andare al di là dei limiti di questa dimensione interpersonale, in senso stretto dialogica;
e che non avrebbe mai potuto coincidere con le «faccende dello Stato», nelle
quali Socrate si sentiva incapace[34].
Di qui un’ulteriore caratterizzazione tecnica ed
etico-politico-pedagogica, del dialogo socratico, nella chiave labrioliana che
interessa:
Il bisogno di accertare e chiarire il fine
della propria opera, e di acquistare una notizia sicura ed infallibile dei
mezzi da applicarvi, era divenuto a lungo andare un impulso all’indagine, su i
mezzi di che gli altri facevano uso nell’esercizio delle proprie facoltà […].
Ma, come l’esigenza della ricerca non ammette dei risultati improvvisati, o
imposti semplicemente dall’autorità, egli era continuamente inteso a riprendere
la quistione nei suoi primi elementi, tutte le volte che l’occasione gli
offrisse materia a discutere di questa o quella capacità e virtù[35].
Perché, in conclusione:
La consapevolezza della propria capacità
o incapacità era la meta cui Socrate volea condurre i suoi interlocutori; e se
poniamo mente alla notevole circostanza, che la più parte dei suoi discorsi
cadeano o sopra la scelta di una via a seguire, o sul giudizio a portarsi sopra un’azione compiuta, sopra cose insomma
che riguardavano immediatamente il benessere dei suoi interlocutori, s’intende
bene come la certezza logica che ne emergeva, per la sua novità, e per la sua
pratica occasione dovesse produrre un’impressione molto superiore a quella che
altri ha voluto scorgere nel dialogo senofonteo. E questa attività pedagogica
era a quel tempo qualcosa di affatto nuovo, e la sua influenza, presa
intensivamente, era di gran lunga superiore a tutto quello che noi generalmente
intendiamo per riforma educativa[36].
Da questo punto di vista, il limite dialogico
delle «personali convinzioni» sembra
coincidere con il valore dell’estensione filosofica dell’attività pedagogica di Socrate, e dunque nel suo metodo:
«che consiste nel principio e nella certezza della dimostrazione dialogica,
mediante la vittoria sulla contradizione», nella «vita che diviene ricerca»,
nella «rettificazione dialettica dei concetti», in una «coscienza intimamente
morale e religiosa», e dunque «nel reale convincimento, che la conformità delle
azioni ai concetti, e della pratica alla coscienza, costituisca lo stato
dell’umana perfezione»[37].
In tal senso, «Il bene è quindi l’utile»[38],
anche se in un modo del tutto particolare. Perché questa
determinazione
non è sintetica, come se il filosofo pronunziasse un giudizio, che deva
stabilire un’eguaglianza fra due concetti già distinti dalla coscienza, e
precedentemente appresi nella loro opposizione, ma è invece analitica, perché
esprime nella forma logica di un giudizio la più semplice ed elementare
distinzione di quel processo psichico che costituisce la coscienza del bene; e
la genesi di quei due termini, che infine si covrono e spiegano
vicendevolmente, è affatto determinata dalle condizioni pratiche e personali
del problema[39].
Ciò che più conta infatti, per il Socrate di Labriola, è che
il concetto del «bene», nella sua
dimensione dialogica caratteristica, giacché viene a rapportarsi sempre all’«imagine concreta della vita», non può essere
«obbiettivato in un termine assoluto ed irrelativo, che serva di stregua ai
particolari giudizi etici: anzi i beni sono tanti quante le concrete relazioni
che offrono materia, e danno occasione alla ricerca»[40].
Il dialogo in tale
ottica va inventato, costruito. Ogni situazione dialogica non è uguale ad
un’altra. A ciascuna il suo dialogo. Con tutte le conseguenze, sugli altri
piani del discorso socratico. Per esempio in tema di ευ̉δαιμονία:
Questa
stessa relatività ed imprecisione è inerente al concetto di ευ̉δαιμονία;
e sebbene la identica denominazione presenti le apparenze di una determinazione
logicamente certa, pure in fondo non è che un termine comune, la cui
intelligenza dipende dalle reali condizioni nelle quali si svolge il dialogo.
Così l’etica di Socrate non è che un primo rudimentale tentativo, per delineare
all’occhio della mente le varie relazioni della vita sociale, col raccogliere
nella evidenza di una definizione i tratti più notevoli delle singole forme[41].
Le forme, i loro tratti “genetici” secondo
“logica”. Cioè il criterio del morfologico in formazione, in presenza della dimensione etica,
dialogica, propria di Socrate. «La sfera della coscienza socratica», che
intanto può apparire «più larga di quel lavoro scientifico che ne fu il
risultato», in quanto «la personale influenza di Socrate […] a quando a quando
seguiva una direzione meramente ricercativa»[42].
La quale, risolvendosi
nel dialogo, veniva subito a collocarsi come nel mezzo: tra le fonti culturali da cui Socrate
proveniva e di cui era parte organica,
e i frutti culturali prodotti
dalla sua azione formativa:
L’intuizione
socratica fa parte della storia generale della coltura greca; e l’immagine del
mondo che ne risulta è in intima relazione con tutto quello sviluppo delle
convinzioni etiche e religiose, le cui tracce sono tanto evidenti nei monumenti
dell’arte, della poesia, della storiografia. Ma nondimeno, sebbene essa risulti
per una lunga mediazione storica da tanti svariati precedenti, nella coscienza
di Socrate ha un carattere affatto immediato, il cui valore non è interamente
espresso in quello che può chiamarsi dottrina, o scientifica elaborazione. E
questa immediatezza o spontaneità
apparisce ancora più palese, se per poco si pon mente a considerare gli
svariati germi di ricerche scientifiche, che i pronunziati di lui fruttarono
nell’animo degli uditori[43].
In altri termini, del dialogo socratico secondo Labriola si
potrà dire qualcosa di certo solo fino ad un certo punto: per il fatto che
l’esposizione
della dottrina di Socrate ha sempre l’apparenza di rassomigliare ad un’analisi
artificiale, e diremmo quasi arbitraria; perché si riesce a mettere in evidenza
un solo lato della sua coscienza, isolandolo dall’altro cui va strettamente
congiunto: e di qui procede eziandio, che questo soggetto tante volte trattato
ha conservato e conserva tuttora l’attrattiva di una ricerca non mai esaurita[44].
Il figlio del “papuano”
Una conclusione questa, che se sposta decisamente
l’attenzione sulla complessità e sull’unicità della costruzione in fieri
del dialogo socratico-labrioliano, getta anche luce sulla peculiarità della
stessa istanza dialogica principale, etico-politico-educativa, di Labriola. E
sui suoi limiti.
Una questione metodologica “di principio” che, nella sua dialogicità,
da un lato dipende dalla specifica tradizione su Socrate (la prima
strada, da percorrere necessariamente, per attingere all’opera non scritta
dell’ateniese), da un altro lato pretende di essere integrata con gli
interventi dei singoli interlocutori di Socrate (la seconda strada,
egualmente imprescindibile, per attingere al prodotto della maieutica
socratica).
Un dialogo, infiniti dialoghi, tuttavia, quelli tra Socrate e
chi gli sta di fronte, di cui a nessuno è dato realmente di sapere. Sicché lo
stesso principio “dialogico” di Labriola, nel suo riconoscibile socratismo, non
può non risentirne: se è vero, come lo stesso Labriola sostiene, che solo
l’immediatezza del dialogo, la sua concreta, effettiva praticabilità, può
restituire formalmente i termini
dell’operazione pedagogica di stampo socratico.
Ed è una dimensione dialogica, che ha comunque in Labriola i
suoi limiti evidenti, limiti tanto filosofici e pedagogici, quanto storici e
politici. E che, per esempio, proprio negli stessi anni del Socrate
viene precisandosi in tema di “libertà d’insegnamento”: una libertà per
l’appunto - sostiene Labriola - che «può intendersi per doppio verso:
scientifico o filosofico, politico o pratico»[45].
E dunque, nel fuoco di una lotta per la libertà della scienza:
La
questione scientifica […] può […]
ridursi a questa semplice e popolare riflessione: la libertà razionale può,
anzi deve conciliare tutti i principi tranne quello dell’autorità cieca e
arbitraria che è appunto la negazione perentoria della libertà razionale
stessa. Come la libertà giuridica non può essere mai tanto conciliante ed
estesa da concedere che ladri e galantuomini vivano assieme, così la libertà
scientifica non potrà mai venire a patti coi romanisti più o meno rabbiosi, i
quali portano scritto sul cappello a stajo o a tre punte: morte alla scienza[46].
Di modo che (e qui il
dialogo risulta essenziale)
essa
è tutto affare degli studiosi di professione i quali, per essere guarentiti nel
giusto uso della medesima in Italia, non hanno più bisogno di niente, se non
della loro buona volontà e forza d’ingegno[47].
Altro invece è il caso del
dialogo nella «questione politica dell’insegnamento libero», della «libertà
d’insegnamento». Su cui Labriola precisa:
Questo concetto ci sembra falso di pianta
per due ragioni principalissime. La prima, che una assoluta libertà di
principi, quanto è utile anzi necessaria fra gente adulta e colta, la quale
trova appunto nella sua coltura tutte quelle mitigazioni e prudenze che non
potranno mai condurre ad altro se non a un avanzamento equabile e collettivo
della umana intelligenza, altrettanto può riuscire pregiudizievole ed anche
esiziale fra una popolazione che, come la nostra, conti una forte maggioranza
d’analfabeti e, in ogni modo, fra una popolazione nella quale si contano a
migliaia i bambini, gli adolescenti ed i giovani, che hanno bisogno non di
libertà ma di guida, e guida relativamente sicura, nello insegnamento[48].
Un’operazione pedagogica, questa, che d’altra parte introduce
ad una filosofia e ad una politica che si spiegano nondimeno, nel Labriola
della fine degli anni Sessanta-primi anni Settanta, in presenza della interpretazione
hegeliana di Socrate e alla luce delle
sue letture herbartiane del tempo. Già Hegel infatti, come è stato
rilevato, poteva avergli insegnato che
la filosofia di Socrate «non è il ritirarsi dall’esistenza e dal
presente nelle libere, pure regioni del pensiero, ma tutt’uno con la vita», e
«non procede a sistema»[49].
Quanto ad Herbart, invece, viene in mente lo Herbart “dialogico” che il
Labriola studioso di Socrate accosta a W. Wehrenpfenning, e sul cui “Platone”
prende appunti nei seguenti termini:
Ma noi seguiamo la spiegazione dell’Herbart:
Il bene figura qui come un principio di mediazione che mette in comunità le
idee per sé rigide ed incomunicabili. E in quanto poi l’essere in quanto
qualità è anch’esso un’idea, il bene in unione di esso comunica l’essere alle altre;
e da ciò procede che esso produca anche il conoscere, in quanto le intelligenze
entrano in contatto con l’essere[50].
Il bene, si direbbe, come principio del principio
dialogico. Il dialogo come mediazione e possibilità di comunicazione tra
le idee e l’essere, e dunque come eventualità del contatto delle
intelligenze con l’essere. Un contatto, che se non si verifica, è la stessa morfologia
del formativo a risultare costitutivamente intaccata, alterata; e, in certe
situazioni, dirà altrove Labriola, resa del tutto impossibile. Sicché il magister
non avrebbe in tal caso pressoché nulla da fare: e del “per chi” e del “con
chi” della sua mancata attività di insegnamento non ha alcun senso
parlare.
Ecco perché, se con gli abitanti della “città” (nella Atene
di Socrate, come nella Roma di
Labriola) le condizioni del dialogo sono immediatamente favorevoli all’azione
pedagogica del “Socrate” di turno, nell’“universo mondo” e cambiando i
presupposti culturali della questione dialogica, lo sono assai di meno. E, in
qualche caso - sostiene Labriola - possono non esserlo
affatto.
Visto che, a deciderlo, non è la pura e semplice volontà
degli uomini, ma la storia («la sola e reale signora di noi uomini
tutti»). La quale, tra scienza e ideologia (tra “tempi lunghi degli
accadimenti” e “fatale andare delle cose”), determina politicamente i propositi e le scadenze, le decisioni e
gli interventi tecnici dell’educativo;
le loro modalità dialogiche; e, ancora prima,
la stessa proponibilità del
dialogico.
Racconta infatti Croce,
lo scolaro Benedetto Croce:
“Come fareste a educare moralmente un
papuano?”, domandò uno di noi scolari, tanti anni fa (credo circa trent’anni
fa), al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia, obiettando
contro l’efficacia della Pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con vichiana e
hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei
schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi
nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia
nostra”[51].
Ma con i figli, con i figli del “papuano”,
intanto, che fare adesso, subito? Sarà meglio renderli schiavi o incominciare
ad educarli? Farsi o non farsi magister, con loro? Siamo al di qua o al
di là dei confini di una ipotetica educabilità, al di qua o al di là dei
limiti del dialogico?
Non sono tuttavia
interrogativi questi, che, almeno nell’immediato, sembrano riguardare il
“socratico” Labriola. Né il Labriola liberale autore del Socrate, né
quello marxista della fine dell’Ottocento-primi anni del Novecento. Perché
mancando secondo lui i presupposti formali
di un’azione educativa, vengono meno anche i contenuti di essa. Non se
ne può addirittura parlare.
L’insegnamento possibile non può essere infatti altro da
quello che, a certe condizioni, riesce a svolgersi, sulla scorta di
«preparazione specifica e di disciplina, di una serie di strumenti tecnici, di
sicure tradizioni, di una particolare attitudine e di pratica»[52].
Dove manchino queste condizioni, caratterizzanti la stessa libertà del magister,
non si dà insegnamento alcuno, né si rendono possibili apprendimenti. Ecco
perché il “papuano”, non libero nel senso “negativo” (kantiano) del
termine, è esso stesso la prova dell’inefficacia della «pedagogica».
Che consiste, invece, in una «funzione affatto definita, che
non è da confondere con quella dell’apostolo, del predicatore, del
propagandista, del giornalista»[53].
Una funzione tecnica che secondo Labriola, per essere svolta, esige già in
partenza, nei destinatari, un’iniziale maturità di vedute, stabili capacità
critiche, conformazioni culturali avanzate. E dunque la necessità di dare tempo
al tempo, di stare quindi nella storia, di osservare la lentezza del suo
ritmo e, qui ed ora, di non bruciare le
tappe, ma di assecondarne il verso. In politica, come dalla cattedra
universitaria:
Chi sta sulla cattedra universitaria,
non deve occuparsi della cronaca quotidiana, non deve esporre la sua opinione
su cose particolari, non deve arringare né agitare, ma insegnare, cioè
dimostrare, spiegare, interpretare le cose[54].
Non deve sollecitare le cose; non intervenirvi; non
tentare pertanto di mutarne il corso. Questo non è il compito del magister: che è quello, invece, di dimostrarle, spiegarle, interpretarle. cioè
di assecondarne l’andamento. Magari polemicamente, ma niente di più di
questo.
Il magister che, con i propri studenti, non deve fare
altro che
chiarire
i concetti, le parole, i segni, sceverare le regole e le idee fondamentali,
formulare le dottrine, presentare le modalità di sviluppo, condurre ad unità i
singoli processi, per quanto più questo gli può riuscire possibile[55].
Ed è rivolgendosi
direttamente agli studenti della sua università infatti, nel novembre del 1896,
che Labriola precisa una volta di più la sua posizione di insegnante[56].
Una posizione che, diversamente da quella da lui sostenuta in precedenza nei
confronti del “papuano” («lo farei schiavo»), non vuol essere, come
dichiara, la posizione del «padrone»,
del «direttore di civiltà» o dell’«iniziatore della storia»[57].
Ma che adesso, come prima discorrendo del “papuano”, induce
Labriola a ragionare ancora in termini di «generazioni»[58]:
non soltanto però, come in quel caso, delle generazioni future dei
«nipoti e pronipoti» del “pappano”, moralmente educabili, forse; quanto delle
presenti e vive, ovvero della formazione in atto della capacità critica e di scelta dei
giovani universitari che ha di fronte.
Di chi, in altri termini, pur non credendo Labriola «al privilegio di razza, in
fatto d’ingegno», si trova tuttavia a vivere una condizione culturale
favorevole, storicamente avanzata; e per il quale dunque, nell’arco di questa
vita, ha senso «aspettare che si formi e maturi»[59].
Che si formi e maturi, cioè, in cooperazione con
gli insegnanti (sottolinea il socratico Labriola), ossia dialogicamente.
Anche se ciò non può avvenire che nei limiti consentiti dalla «ragione tecnica» della «pedagogia nostra»,
su cui si fonda lo stesso principio dialogico, che accomuna docenti e
discenti, in quanto «commilitoni sotto l’insegna di quella libera e
spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere ad un
tempo»[60].
E che è sì la ratio del magister nella quale
(ribadisce Labriola) «consiste la specialità della nostra carriera, e la
garanzia che le compete»[61];
ma che, come punto di vista, non riesce ad uscire dalle barriere imposte dalla
storia. Considerato che (aveva
precisato in precedenza), «anche noi professori, con tutto quello che
noi facciamo, noi siam vissuti dalla storia; che è la sola e reale
signora di noi uomini tutti»[62].
[1] Per un profilo d’insieme del Labriola e per indicazioni bibliografiche essenziali, cfr. N. Siciliani de Cumis, Antonio Labriola a cemtosessant’anni dalla nascita, in “pedagogia e vita”, luglio-agosto 2003, pp. 65-80.
[2] A. Labriola, Epistolario 1890-1895. Introduzione di E. Garin, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, p. 354 (una lettera del 9 novembre 1891).
[3] Cfr. A. Labriola, Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, UTET, 1981, pp. 568-569.
[4] A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele (1871). A cura di Luigi Dal Pane, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 35.
[5] Ivi, pp. 99-101.
[6] Cfr. L. Dal Pane, Antonio Labriola. La vita e il pensiero, Roma, Edizioni Roma, 1934-1935, pp. 60-61.
[7] A. Labriola, Ricerche sul problema della liberà e altri scritti di filosofia e di pedagogia (1870-1883). A cura di L. Dal Pane, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 6-7.
[8] Ivi, p. 55.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem. Diversamente che in Platone, in Socrate «non è da trovare neppure il più lontano germe della dottrina psicologica della morale: cosacche il concetto che egli cercava, la semplice intellezione morale, gli appariva come causa immediata di una volizione immediata» (ivi, p. 56).
[11] A. Labriola, Scritti pedagogici, cit.,
[12] Ibidem.
[13] Ivi, pp. 569-570.
[14] Ibidem.
[15] A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele, cit., p. 42.
[16] Ivi, pp. 42-43.
[17] Ivi, pp. 74-75.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] Ivi, p. 76.
[24] Ibidem.
[25] Ivi, p. 79.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ivi. p. 80-81.
[29] Ivi, p. 82.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Ivi, pp. 94 sgg.
[33] Ivi, p. 99.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p.
100.
[37] Ivi, pp. 140-141.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Ibidem.
[42] Ivi, pp. 141-142.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem.
[45] A. Labriola, Scritti pedagogici, cit., pp. 123-126 (un articolo in “Il Piccolo Giornale di Napoli” del 21 gennaio 1869).
[46] Ibidem.
[47] Ibidem.
[48] Ibidem.
[49] G. G. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, Perugina-Venezia, La Nuova Italia, 1930 sgg., II, p. 52. Cfr. G. Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia, Urbino, Argalìa, 1976, p. 33.
[50] A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele, cit., p. 252. Cfr. quindi J. F. Herbart, Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, a cura di I. Volpicelli, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1997, p. 195.
[51] Cfr. B. Croce, “Rivista bibliografica” (a proposito di G. De Ruggiero, “Critica al concetto di cultura”, Catania, Battiato, in “La Critica”, vol. XII, 1914, p. 312; poi in id., Conversazioni critiche, serie seconda, seconda edizione riveduta, Bari, Laterza, 1924, pp. 60-61.
[52] A. Labriola, Scritti pedagogici, cit., p. 578 (una conferenza su Le ragioni e i limiti della libertà d’insegnamento, secondo il resoconto della Beilage della “Allgemeine Zeitung” di Monaco, 6 febbraio 1896).
[53] Ibidem.
[54] Ibidem.
[55] Ibidem.
[56] Cfr. A. Labriola, L’università e la libertà della scienza (1896-1897), in Scritti pedagogici, cit., pp. 613-616.
[57] Ibidem.
[58] Ibidem.
[59] Ibidem.
[60] Ibidem.
[61] Ibidem.
[62] Ivi, p. 604.